Cos’è il ritiro sociale giovanile?

Il ritiro sociale giovanile o “sindrome Hikikomori” è un fenomeno complesso, in continua crescita sul territorio italiano, in particolare nelle grandi città.

Si tratta di ragazzi e ragazze che hanno come tratto in comune quello di ridurre al minimo le proprie attività sociali, la frequenza scolastica in primis, e di impegnarsi in un vero e proprio sforzo di reversione del processo di sviluppo.

Una descrizione dettagliata della sintomatologia tipica del ritiro sociale e delle sue possibili modalità di trattamento è presente alla pagina dedicata.

Ritiro sociale giovanile: analisi del contesto familiare

In questo articolo, invece, si intende proporre un’analisi del contesto familiare e dei “paradossi comunicativi” che in qualche modo innescano e determinano le dinamiche del ritiro stesso.

Come si vedrà, ho basato le mie riflessioni, oltre che sulla pratica clinica, anche su una teoria psicologica di ambito sistemico-familiare e su una metafora attinta dalla cultura fantasy, ovvero dalla popolare e mastodontica opera di J.R.Tolkien, “Il Signore degli Anelli”.

Una sofferenza apparentemente inspiegabile

Durante questi ultimi anni di pratica clinica con nuclei familiari “colpiti” dal fenomeno del ritiro sociale volontario giovanile, sia come psicoterapeuta, che come educatore, mi sono chiesto spesso se vi fosse un filo conduttore che collegasse tra loro le famiglie con cui sono entrato in contatto. Devo confessare che trovarlo non è stato per nulla semplice.

In altri termini, complice forse anche l’ampia varietà dei ruoli e delle posizioni da me assunte, non è stato agevole individuare un motivo ricorrente, al di là del fatto che un giovane membro del nucleo avesse deciso, in modo apparentemente ostinato e inspiegabile, di chiudersi al mondo proprio quando i suoi coetanei vi si avventuravano.

ritiro sociale volontario giovanile

Ritiro sociale giovanile: valvola di sfogo culturalmente significativa

Questo potrebbe far pensare che il ritiro sociale, più che una sindrome, possa essere una valvola di sfogo culturalmente significativa per il disagio esistenziale di ragazzi di buona famiglia con ottime potenzialità intellettive e creative; un po’ come lo sono stati, negli anni 70, 80 e 90 del secolo scorso, un certo tipo di musica e l’abuso di alcune sostanze.

Tuttavia, sono uno psicoterapeuta sistemico-familiare, che ha accettato il compito di aiutare queste famiglie; pertanto, scegliere una scorciatoia concettuale di questo tipo mi sembrerebbe il sintomo di un rifiuto, almeno parziale, del mio ruolo. Mi sono quindi ostinato un po’ e, infine, sono giunto a un punto che reputo interessante e che costituisce il nucleo di questo articolo.

I principali connotati delle famiglie hikikomori

Prima di proporre metafore, teorie o riflessioni cliniche, vorrei elencare, per punti e in modo schematico, alcuni “dati osservativi”; ovvero degli elementi che ho ritrovato in tutte o quasi tutte le famiglie che ho incontrato, conosciuto e cercato di aiutare. Ecco l’elenco (senza un ordine particolare):

  • Tutti gli “hikikomori” da me incontrati erano di genere maschile (anche a livello statistico, pare che il genere maschile sia prevalente in questo fenomeno)
  • I miei pazienti in ritiro erano stati tutti bambini molto dotati, con capacità cognitive ben sopra la media e, spesso, anche con notevoli doti artistiche e/o creative. Alcuni di essi avevano mostrato anche sensibilità ed empatia sopra la norma (apparentemente smarrite con il ritiro). Altri, invece, venivano descritti come “nel loro mondo” e distaccati fin da bambini.
  • Tutti gli adolescenti in ritiro sociale che ho conosciuto mostravano comportamenti infantili o comunque inadeguati all’età. Si trattava di una sorta di dispotismo capriccioso e/o di una ricerca continua di contatto fisico e di “coccole” e/o di una passività e di una dipendenza dai genitori molto enfatizzate e quasi esibite.
  • I padri dei ragazzi ritirati avevano solitamente accettato il loro ruolo educativo e di modello identificativo, ma interpretandolo spesso in modo prestazionale e discontinuo (ad es. si erano occupati dei figli per poche ore a settimana, cercando in quei momenti di essere dei “padri perfetti”).
  • Sempre restando sui padri, questi erano individui intelligenti, a volte anche molto intelligenti. In termini di successo professionale, si trattava in media di uomini benestanti e abbastanza affermati, ma, in molti casi, al di sotto di quanto avrebbero potuto/voluto essere. Questo aveva prodotto in loro una certa amarezza, ma anche, talvolta, un sordo rancore rivolto verso la collettività, che non li aveva accolti, compresi e valorizzati.
  • Questi uomini soffrivano di frequente di difficoltà relazionali simili a quelle manifestate dai loro figli in ritiro. Tuttavia, oltre alla “categoria” degli uomini solitari, disciplinati, rigidi e introversi, mi sono talvolta imbattuto anche in quella degli uomini prepotenti, impulsivi, vendicativi (in alcuni casi, anche francamente violenti con le loro compagne).
  • Le madri dei ragazzi hikikomori erano a loro volta donne intelligenti, professionalmente attive, di solito più emotive e socievoli sia dei padri stessi, che dei figli in ritiro. Spesso, tuttavia, portavano con sé storie familiari difficili e una tendenza alla bassa autostima e all’espressione frequente delle emozioni negative. In molti dei casi da me incontrati (anche se non tutti), queste donne erano state costrette in un momento della loro vita in una posizione in qualche modo secondaria o comunque passiva rispetto ai propri genitori o all’attuale marito/compagno.
  • Le emozioni emergevano raramente e, di solito, a scoppi, tipicamente di rabbia, talvolta di pianto. Venivano enfatizzati gli elementi di differenza a scapito di quelli di somiglianza (entro i membri della famiglia o tra questi e il resto del mondo) e l’impostazione generale dei rapporti era competitiva, seppure in modo non manifesto.
  • L’aggressività era sempre o quasi sempre indiretta. Questo perché, probabilmente, si teme di esprimerla e di confrontarsi in modo aperto con essa. Del resto, anche nelle famiglie di ragazzi “hikikomori” con padri violenti, la violenza si esprimeva in modo implicito, psicologico, sottile (a parte un unico caso, in cui erano purtroppo presenti maltrattamenti fisici piuttosto gravi). Prendendo in prestito l’espressione della madre di un ragazzo ritirato seguita l’anno scorso in psicoterapia: “Mio marito non mi ha mai picchiata, ma avrò immaginato mille volte che stesse per farlo e si trattenesse a fatica. Era come una tigre in gabbia”.

La “Dinastia dei Sovraintendenti” e il tema dell’attesa

Qual è, dunque, il tema che emerge da queste osservazioni? A mio avviso è quello di un’attesa insoddisfatta. Per meglio dire, di un’attesa insoddisfatta da generazioni.

Un’attesa disperata, opprimente, l’attesa di un Re, di un Eroe, di un Messia, che ricade sui membri di sesso maschile di una famiglia e che probabilmente viene tramandata da padre in figlio, fino a che l’esordio della sintomatologia del ragazzo ritirato minaccia di svelarla e di puntare il dito verso la sua terribile pesantezza.

A mio parere, una delle metafore più adatte per rappresentare questa attesa è quella della “Dinastia dei Sovraintendenti” del Regno di Gondor, nel mondo fantasy del Signore degli Anelli creato da J.R.Tolkien.

dinastia soprintendenti

In sintesi, il trono del Regno di Gondor, pericolosamente vicino al territorio di Mordor, ciclicamente occupato da Sauron (il “cattivo” della saga) e dai suoi eserciti, è da tempo vacante e nella città di Minas Tirith a governare sono i “Sovraintendenti”. Nell’Universo fantastico di Tolkien, la carica di Sovraintendente sarebbe stata creata dagli stessi Re di Gondor per indicare il consigliere di maggiore prestigio, scelto in virtù della sua saggezza e onestà. A questo consigliere non era permesso andare in guerra o viaggiare all’estero ed egli doveva restare sempre in città per vicariare le funzioni del Re quando questi era impegnato in campagne militari o diplomatiche. Estinta o quasi estinta la legittima dinastia regnante, i Sovraintendenti iniziarono a governare in attesa del ritorno di un legittimo monarca, trasmettendosi dinasticamente il titolo, quasi come una vera e propria famiglia reale, ma in realtà occupando sempre una posizione ambigua nel sistema, rappresentata in modo efficace dall’immagine che ho allegato: i Sovraintendenti sedevano infatti presso il trono, ma senza mai occuparlo.

Al momento in cui la Compagnia dell’Anello (ovvero gli eroi della saga) giunge nella città di Minas Tirith, il Sovraintendente è un uomo chiamato Denethor, che nei film fa una ben misera figura ed è presentato come un personaggio univocamente negativo, ma che nel libro è descritto come un uomo saggio, di valore, volitivo e colto, che però a grandi doti di comandante e stratega accompagnava un’estrema freddezza.

La sua figura, cupa, introversa, compulsiva, ripiegata sul proprio pensiero e sulle proprie paure, si contrappone a quella luminosa e piena di vita di Aragorn, che è in realtà è il vero Re, il “Messia”, ovvero l’ultimo erede della dinastia legittimamente regnante, che, alla fine della storia, riprenderà il suo trono (quello vero), dopo che il povero Denethor si sarà tragicamente suicidato.

La teoria delle “Polarità Semantiche Familiari”

Elencati i dati clinici e proposta la mia metafora, credo che, per proseguire con il ragionamento, sia opportuno introdurre la teoria sistemica a cui ho fatto riferimento in apertura. Si tratta della teoria della “Polarità Semantiche Familiari” proposta da Valeria Ugazio nel libro “Storie Permesse. Storie Proibite” (una teoria, che, ci tengo a puntualizzarlo, introduco al solo scopo di mettere ordine nelle mie intuizioni, senza voler entrare nel merito di un discorso teorico vero e proprio).

In sintesi, l’idea di Ugazio è che ogni membro di una famiglia si definisca come individuo a partire dalla sua posizione nel “discorso familiare”, che è costruito secondo polarità semantiche di opposti (secondo l’autrice, tipicamente: Bontà-Cattiveria; Potenza-Impotenza; Libertà-Dipendenza; Appartenenza-Esclusione). Tali dicotomie definirebbero i valori fondanti e, in un certo modo, le trame e gli intrecci possibili nella storia di quella famiglia.
La teoria prevede, del resto, che le posizioni assunte entro queste polarità siano sempre relazionali, ovvero che vi possa essere un membro della famiglia “dalla parte giusta” solo tramite il confronto con altri membri “dalla parte sbagliata” (e viceversa).

Detto questo, a mio parere la “semantica” da sola non basta e, per capire una famiglia, bisogna ragionare anche sulla “sintassi”, ovvero su come ciascuno reagisce ai comportamenti e ai discorsi dell’altro. In altre parole, se ipotizziamo che la “polarità semantica” in una famiglia è quella di “Buono-Cattivo”, come fanno i membri di quella famiglia a mostrarsi buoni o cattivi? E che cosa succede, nel tempo? Probabilmente, qualcuno cercherà di cambiare la sua posizione, ma come reagiranno gli altri? Quanta fatica costa, ad esempio, farsi considerare più buoni, in quella famiglia?

In particolare, vorrei sottolineare che nella larga maggioranza delle concezioni di psicologia sistemico-familiare, si è convinti che il membro del nucleo familiare che manifesta la maggiore sofferenza a livello psicologico si sia scontrato con meccanismi comunicativi molto difficili. Anzi, utilizzando un termine caro alla tradizione del pensiero sistemico, la “sintassi familiare” è stata spesso paradossale o comunque al limite dell’impossibile per lui o per lei.

La delusione o la colpa?

Fino a qui ho elencato i dati clinici, proposto la metafora e introdotto la teoria. 

colpa o delusione

Non rimane che chiedersi quale potrebbe essere una “polarità semantica” tipica di una famiglia hikikomori e, soprattutto, quale sarebbe la “sintassi impossibile” a cui i ragazzi in ritiro rischiano di soccombere.

Per rispondere a queste due domande, vorrei tornare ancora al “Signore degli Anelli” e alla mia metafora. Dal momento che Tolkien ha già descritto i figli di Denethor (che, per inciso, sono tutt’altro che due “hikikomori”), propongo di immaginarci lo stesso Denethor bambino e poi adolescente e in procinto di succedere a suo padre. Immaginiamolo come un bambino bello, intelligente, curioso, intuitivo; un bambino che potrebbe essere un futuro Re, anche se questo, lo sappiamo, è impossibile.

Anche il piccolo Denethor lo sa: forse gli è stato detto, forse l’ha capito da solo, osservando suo padre che siede a fianco del vero trono, ma, al momento, al piccolo non importa. Crescendo, però, Denethor si rende conto di due cose: che il Regno di Gondor è minacciato dalle truppe del terribile Sauron e che sarà lui a doverlo difendere, anzi salvare o almeno risollevare, perché il Regno è reduce da una secolare decadenza.

In questo contesto, la sua particolare brillantezza conduce il piccolo Denethor, anche in assenza di effettive pressioni genitoriali (ovvero, anche senza genitori che lo spingono in modo consapevole e spregiudicato verso traguardi gloriosi e/o irrealistici), proprio nel cuore del dilemma familiare.

Se infatti egli accetta di succedere a suo padre e di governare da Sovraintendente un Regno decaduto che avrebbe bisogno di un Re, egli si “condanna” in qualche modo ad assomigliare alla dinastia di Sovraintendenti amareggiati e delusi che lo hanno preceduto.

D’altra parte, il Denethor adolescente sa che il Regno è minacciato e l’alternativa di rinunciare alla successione per non deludere nessuno e farsi la sua vita altrove, gli sembra irresponsabile e, probabilmente, verrebbe vissuta come una colpa opprimente agli occhi dei suoi genitori e dei suoi concittadini.

La rabbia, la rinuncia e il ritorno all’infanzia

Manca un ultimo, fondamentale, elemento, che possiamo provare ad aggiungere alla nostra fantasticheria: che cosa fa la madre di Denethor? Che ruolo interpreta?

La mia proposta è di immaginarla molto legata al marito, l’attuale “Sovraintendente regnante” e all’apparenza molto tollerante, per amore o per forza, rispetto alla sua incapacità di risollevare le sorti del Regno, ma contemporaneamente orgogliosissima del suo talentuoso, piccolo Denethor. Orgogliosa di lui, al punto che Denethor potrebbe convincersi che siano le sue doti e il suo talento “da Re” e non lui come persona a costituire l’oggetto dell’amore materno.

Rabbia adolescenziale

La rabbia connessa a questa convinzione, potrebbe restare però come assopita fino a che Denethor rimane un “bambino eccezionale” e non “l’ennesimo Sovraintendente”. A quel punto, la sua rabbia minaccerebbe di raggiungere livelli intollerabili.

Fuor di metafora, potrebbe essere dunque questa, la “Polarità Semantica” tipica delle famiglie “hikikomori”: l’opposizione tra Vitalità e Consapevolezza.

I membri “Consapevoli” sarebbero tipicamente cupi e tristi, proprio in virtù della loro consapevolezza (che è la consapevolezza di un limite considerato inaccettabile), mentre i membri “Vitali” potrebbero essere quelli ancora inconsapevoli.

La “sintassi impossibile” su cui si bloccherebbe il giovane hikikomori sarebbe, quindi, qualcosa del genere:

Crescere significa perdere la vitalità e la spontaneità della mia infanzia, che mi rendevano simile a mia madre, nel tentativo destinato al fallimento di salvare la mia famiglia, assomigliando in questo sempre più a mio papà (a sua volta vittima dello stesso meccanismo), ma senza l’approvazione totale che mia madre gli riserva.

Questo è molto doloroso, troppo doloroso, ma altrettanto lo sarebbe andarmene e farmi la mia vita lontano da qui.

Un dilemma all’apparenza irrisolvibile

Come uscirne? La soluzione al dilemma, scelta da molti ragazzi, è quella di tornare all’infanzia, alla potenzialità, in uno stato meno consapevole cioè in cui si “poteva essere” e ancora non si era.

D’altro canto, questo costa agli “hikikomori” la rinuncia al proprio futuro e la fatica di leggere la delusione negli occhi di chi li stimava e la difficoltà crescente a reperire dentro di sé quella vitalità infantile che li aveva abitati (perché, riprendendo le parole di uno dei ragazzi in ritiro: “Indietro non si torna”).

Prospettive terapeutiche

Prospettive terapeutiche del ritiro sociale giovanile

Che cosa potrebbe fare il ragazzo ritirato per risolvere in modo meno doloroso il proprio dilemma? E quali movimenti richiederebbe alla sua famiglia, questo passo evolutivo?

La questione è molto intricata e vorrei lasciarla parzialmente aperta alla riflessione, tuttavia mi piacerebbe concludere questo articolo con un’apertura sulle prospettive terapeutiche e proporre, al riguardo, un’ultima ipotesi.

Tutte le famiglie con un ragazzo hikikomori che ho incontrato avevano come ulteriore elemento comune quello di essere unite da legami fortissimi, basati in gran parte sulla percezione della propria importanza come rimedio alla tristezza altrui. Era infatti per tutti difficilissimo dimenticare l’altro anche solo per pochi momenti e chi lo faceva si sentiva o veniva giudicato un ingrato, un traditore o, semplicemente, una persona superficiale. Questo si accorda abbastanza bene con la semantica “vitale=inconsapevole” (e dunque superficiale), ma suggerisce anche una prospettiva: qualunque intervento, infatti, dovrebbe secondo me affrontare, presto o tardi, la questione della lealtà reciproca, della liceità della gioia e del benessere (anzi, della loro dignità) e di come la prima non sia messa necessariamente in discussione dai secondi.

Adolescenti

Restituire all’adolescenza le sue emozioni

Questo ragionamento si connette al tema adolescenziale dell’emancipazione, ma inquadrato in un contesto familiare in cui le emozioni, che solitamente fluiscono in modo abbondante durante l’adolescenza, sono sempre schermate, mascherate da discorsi razionali, nascoste nei silenzi o nei pianti. Un destino a cui è destinata, in queste famiglie, non solo la rabbia (come già menzionato), ma anche il benessere, oppure la paura, il desiderio, l’ambizione, la delusione.

Qualunque moto dell’animo sembra muoversi come un fiume carsico, sotto uno spesso e saldissimo strato di legami che risultano, paradossalmente, al contempo fortissimi e distaccati.

Anche se può sembrare un controsenso, colorare questi legami dei loro aspetti emotivi potrebbe essere il primo passo per renderli meno “sacri” e dunque per sbloccare il processo di crescita che gli “hikikomori” hanno reputato saggio mettere in pausa.

Articolo del dott. Giulio Corrado: Psicologo e Psicoterapeuta di formazione Sistemico-Relazionale

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