Nella mia pratica da psicoterapeuta, sia individuale che di coppia, ho incontrato numerose persone alle prese con un tormento interiore molto comune e al contempo assai difficile da sviscerare: come fare quando la persona che si è amato per una vita, di improvviso o nell’arco degli anni, diventa la fonte principale del dolore emotivo?

Non sempre c’è questa consapevolezza. A volte si oscilla fra velate, ma pruriginose lamentele riferite al partner e standing-ovation della relazione di coppia. Il tutto accompagnato da una serie di indicatori di disagio personale, come sintomi veri e propri (ansia, attacchi di panico, depersonalizzazione, depressione…), ma anche come una più effimera confusione rispetto alla dimensione di senso nella propria esistenza, o persino con manifestazioni di preoccupazione per temi del tutto lontani da quello di coppia, che vengono però descritti attraverso una narrativa che va a parare, 9 volte su 10, su una serie di insoddisfazioni sentimentali.

Perché è così difficile parlarne apertamente? E perché , anche quando si è messo a fuoco che il “problema” sta nell’incastro di soggettività fra i due partner, può risultare tanto oneroso, se non quasi-impossibile, trovare una via di uscita?

La bolla del benessere

Si parla spesso di “dipendenza affettiva”, ma cosa ci sta dentro? Di solito molte, moltissime cose, tutte attorcigliate. Oggi vorrei parlare di un aspetto a cui forse si presta poca attenzione, focalizzati come siamo sul “qualche cosa che non va” nelle situazioni. 

A me è capitato di notare che, spesso, nella difficoltà a lasciar andare una persona ci sta una particolare forma di “attaccamento” a sensazioni positive di cui si è fatta esperienza nei primi tempi della relazione. Mi riferisco a quelle sensazioni di pace, armonia, protezione, benessere come assenza di qualsiasi altro bisogno… in poche parole, il senso di essere “finalmente approdati” a un’isola felice, una terra libera da conflitti e sofferenze.

Sottolineo la parola “finalmente” perché credo che abbia un peso cruciale. Infatti la fatica a distaccarsi da questa versione idealizzata del noi-di-coppia ricade soprattutto su quelle persone che, in precedenza, hanno fatto esperienza di profonde ferite relazionali. Persone che hanno lottato per andare avanti, per sentirsi adeguate, per mettere assieme briciole di connessione emotiva con qualche altro essere umano. Magari sono persone che hanno anche avuto esperienze di relazioni sentimentali e quindi apparentemente dovrebbero essere più attrezzate per capire cosa funziona e cosa no nei rapporti. E invece, a volte sono proprio loro le persone che più fanno fatica a “lasciar andare”… anche quando è ormai evidente a ogni cellula del proprio corpo che la realtà di quella relazione non corrisponde minimamente, o solo a piccoli tratti, a quell’ideale di complementarietà perfetta a cui ci si era aggrappati. 

Cosa ci sta dentro?

La forza della speranza è davvero potente… tanto da spingerci a deformare le lenti con cui guardiamo al mondo. In questo processo, capita non di rado che si sviluppi qualche forma di sotterranea depressione, dove la persona rivolge al proprio interno tutto il dolore e la spiegazione della sua origine (del tipo “sono io che non vado bene”), con manifestazioni fisiche oltre che emotive. Pur di non affrontare l’amare realtà che, ancora una volta, ci si è illusi. 

Poi, non vorrei nemmeno far passare il messaggio che ogni relazione un po’ insoddisfacente sia da gettare via. Tutt’altro! L’arte di negoziare i propri bisogni con quelli dell’altro è fondamentale nella vita. Però a volte la tenacia nel difendere il rapporto a tutti i costi trova un perno nell’esigenza, assolutamente comprensibile, di rimandare il confronto con la cocente ferita della delusione. Per delusione non si deve pensare solamente al sentirsi delusi dal partner, ma anche da se stessi. Dentro la cosiddetta “bolla” ci sta l’esigenza di vivere, fare esperienza, sia delle emozioni positive di cui si era sofferta la mancanza, sia di una certa immagine di sé. 

Per ognuno la posta in gioco è diversa. C’è chi aveva sofferto l’abbandono, e spera di poter creare “finalmente” la famiglia ideale di cui si era sentita la mancanza… Chi si era sentito non—visto, o visto dal genitore in modo distorto, e quindi “finalmente” spera di potersi sentire forte, pieno di valore, degno… altri possono essere inconsciamente alla ricerca di un posto al sicuro, di sentirsi protetti, amati in modo incondizionato, o di trovare un’anima simile alla propria, con cui potersi “finalmente” capire.

In ognuna di queste circostanze, molto soggettive, c’è un insieme di bisogni/desideri/emozioni/immagine di sé e dell’Altro, che forma una costellazione unica, e che rimanda, contemporaneamente, ad un lato della medaglia “Buono” (la speranza) ed un lato “cattivo” (il trauma da cui si fugge). Questi diversi aspetti vengono per lo più tenuti ben separati tramite processi difensivi di tipo dissociativo, per cui diventa davvero difficile presagire la sciagura quando si è nel polo romantico della relazione, e viceversa, può risultare faticoso recuperare un senso di connessione empatica col partner quando la ferita traumatica fa capolino. 

Un approccio non-violento

Detto tutto questo, io creo che sia solo passandoci attraverso, che le situazioni prendono forma e senso… Ci sono dei tempi interni, che vanno rispettati. Tentare di forzarli ha effetti per lo più controproducenti, come accade quando amici o parenti insistono nel far notare le pecche della relazione di coppia e la persona apparentemente si “ostina” a non voler vedere l’evidenza. 

C’è sempre una ragione profonda, che va compresa e presa fra le mani, con delicatezza, prima di superare qualsiasi tipo di blocco evolutivo. Abbracciare il Sé ferito, al posto di denigrarlo o minimizzarlo, è un primo, necessario passaggio. 

A volte il costo del riconoscimento (e poi del cambiamento) è ancora “troppo” alto, vuoi perché ci sono nodi irrisolti che gravitano attorno al tema focale, rendendo o una matassa ben più complicata da sbrogliare, vuoi perché la persona non si sente “pronta”, teme di non avere le risorse per sopportare il dolore e rimarginare le ferite. In questi casi, un approccio troppo forzato all’azione potrebbe essere percepito come una mancanza di empatia, nel migliore dei casi, o addirittura come un attacco diretto alla persona, una vera e propria violenza, che aggiunge senso di auto-biasimo e ulteriore stallo nel processo di avanzamento.

Se invece si riesce ad approcciare qualsiasi difficoltà portata dal paziente con curiosità e autentico senso di compassione, specialmente verso quelle parti di sé che la persona non riesce ad accettare o di cui si vergogna, si crea quel senso di sicurezza che, in maniera naturale, potrà sostenere la persona nel suo cammino verso la guarigione e la crescita. 

Il concetto di “non-violenza” è un principio di origine buddista, che è stato ripreso come uno dei “fondamenti” della psicoterapia sensomotoria:

Terapia individuale o di coppia?

Alcuni si chiederanno quale tipo di percorso sia più indicato. Nella mia esperienza, le persone ci arrivano dai punti di partenza più disparati. Un cammino di psicoterapia individuale intrapreso per ragioni apparentemente lontane dai temi della coppia, può condurre ad un certo punto a notare il pezzo relazionale che ci sta sotto. Altre volte, ci sono coppie in crisi che arrivano proprio alla terapia di coppia, e lungo questo percorso si ri-scoprono pezzi personali che ognuno dei due partner aveva congelato, depositandoli inconsciamente nella relazione di coppia. 

Questa è una delle evoluzioni a mio avviso più interessanti, perché è proprio lì che si crea l’occasione per ciascuno di riappropriarsi dei pezzi di crescita e guarigione personale, alleggerendo la dimensione di coppia dal peso di questi irrisolti e conferendo a ciascuno l’opportunità di vedersi , e di vedere l’Altro, in modo più autentico. E così, si crea quello spazio dove poter sia disfare, sia anche ri-fare il legame di coppia, riprogettandolo sulla base di una maggiore libertà interiore. 

Se questa riflessione è risuonata in qualche modo nelle tue corde interiori, possiamo parlarne! Ogni percorso è unico e sarei felice di scoprire insieme a te il potenziale di luce che si cela dietro alle nubi che, magari, stai scorgendo sul tuo orizzonte. 

Bibliografia

  • Castellano, R., Velotti, P., & Zavattini, G. C. (2010). Cosa ci fa restare insieme?  Il mulino.
  • Fisher, J. (2017). Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma. Raffaello Cortina
  • Norsa, N., & Zavattini, G. C. (1997). Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicanalitica di coppia. Raffaello Cortina
  • Ogden, P., Fisher, J. (2016) Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Raffaello Cortina
  • Ringstrom, P. A. (2017) Psicoanalisi relazionale e terapia di coppia. Giovanni Fioriti.

Se interessati, sono assolutamente disponibile per una telefonata (o videochiamata) gratuita dove poterci conoscere, scambiare informazioni, rispondere ad eventuali quesiti e valutare, se richiesto, l’opportunità di un percorso. Mi trovate all’indirizzo email:  info@centropsicologiavarese.it    ed al numero di cellulare: +39 333 4529162 Articolo a cura Di Stefania Pozzi Psicologa e psicoterapeuta.