Di Stefania Pozzi

Nell’articolo precedente si è parlato di tempo, di come sia importante darsi un tempo per sedimentare i vissuti e far sì che i processi della resilienza psicologica si sviluppino, secondo ritmi naturali.

Se fino ad ora abbiamo dovuto gestire l’ondata d’urto della “minaccia coronavirus” e delle restrizioni sociali, adesso ci apriamo ad una nuova fase, quella della ripartenza, non meno complessa da gestire rispetto alla precedente, sotto tutti i punti di vista. Da un lato vi sono ancora molti elementi di incertezza sul “dopo”, per i quali, ahimè, possiamo solo navigare a vista osservando come si materializza la costa, in attesa di identificare un chiaro punto di attracco. Dall’altro lato però, questo è il momento per sfruttare la parte restante della quarantena in vista del tragitto da compiere dopo l’attracco.

IL VIAGGIO NON FINISCE

Mi torna in mente la lettura della trilogia “Il mio nome è Nessuno” di V. M. Manfredi, centrata sul personaggio di Odisseo (Ulisse), ed il senso di sorpresa nel constatare che l’opera non si conclude con il ritorno dell’eroe alla sua agognata Itaca.

Odisseo e Tiresia

Egli sa che il suo destino lo porterà ancora più in là. Doveva fare ritorno alle sue origini, sistemare le faccende in sospeso, dare un saluto ai suoi cari, ma tutto ciò per capire come riprendere il cammino, verso un destino dai contorni incerti eppure già delineati. Che senso di sgomento nel dover salutare di nuovo la moglie Peneolope, nell’abbandonare, ancora una volta, i suoi punti di riferimento emotivi! Uno sgomento che, probabilmente, sta cogliendo ognuno di noi, man mano che si concretizza la percezione del fatto che non “ripartiremo” ad aprile, né a maggio, né a settembre, nel senso che non torneremo alle nostre “origini”. Le rivedremo, certamente, ma per aprirci ad una nuova fase del viaggio, verso un mondo a noi ancora sconosciuto. Siamo al punto di svolta fra un capitolo e l’altro della nostra odissea personale.

Stiamo raccogliendo l’occorrente per questo ulteriore viaggio? Abbiamo pensato ad un itinerario di massima? A come affrontare le insidie che incontreremo lungo il tragitto? Che cosa sentiamo di voler portare con noi, della nostra Itaca, cosa invece abbandonare?

SPINTA IN AVANTI

Perché non è possibile un ritorno allo status quo?

In primis dobbiamo considerare che la gestione del virus continuerà, che non si tratta solo di scavallare una fase di acuzie, ma di pianificare la vita sociale in un’ottica di cronicità… In secondo luogo, ognuno di noi uscirà da questa vicenda molto cambiato. Non potremo guardare al mondo con gli stessi occhi. Si badi bene, ciò non significa solo che il mondo ci sembrerà più brutto; anzi, per molti di noi (mi auguro in qualche misura, per tutti), questa dura messa alla prova ha temprato le nostre risorse e ci sta spingendo a rimescolare le carte interne, offrendoci la possibilità di una crescita psicologica.  

Questo periodo intermedio fra l’emergenza sanitaria e la cosiddetta “fase 2” può costituire un laboratorio dove fare esperimenti e formulare progetti su se stessi, una sorta di “spazio transizionale” dove il vuoto lascia il posto alla creatività.

Ognuno di noi ha un bambino nascosto dentro di sé, che non è solo il bambino vissuto nella propria infanzia, ma è anche la parte di noi orientata al futuro, quella che aspetta le condizioni necessarie per venire alla luce e crescere. Fino a quel momento, se ne rimane come un feto dentro il grembo della madre, seguendo i tempi di una gestazione psichica. Prima o poi, busserà alla porta per venire alla luce. A volte il parto si avvia naturalmente, a volte viene accelerato dai farmaci o da fattori traumatici. Stando nella metafora, possiamo dire che i cambiamenti di questo momento epocale, almeno per alcuni di noi, potrebbero fare da contrazioni affinché l’utero si prepari al parto.

Saremo delle buone ostetriche di noi stessi? Di quali strumentazioni abbiamo bisogno? Che tipo di accoglienza emotiva daremo al nostro bambino interno? Sappiamo ricucire le lacerazioni che, inevitabilmente, si produrranno?

UN ESEMPIO

Una giovane donna era abituata a spingere l’asticella delle aspettative su di sé sempre più in alto, sforzandosi (con ansia) di rincorrere un’agenda sempre piena, rimanendo per lo più svuotata di energie e insoddisfatta, comunque, dei risultati conseguiti. Questa “bulimia del fare” aveva l’effetto di saturare la mente, impedendole di entrare in contatto con sentimenti di inadeguatezza che, del resto, non erano mai stati accolti e legittimati dalle sue figure di riferimento emotivo dell’infanzia. Dovendo sospendere le sue attività professionali in modo brusco e totale, a seguito dei decreti ministeriali per il contenimento del coronavirus, si sentì inizialmente andare in pezzi. Superata questa prima fase di crisi, ha potuto cominciare a fare esperienza di un nuovo modo di vivere, dai ritmi più rallentati, che le ha consentito di recuperare le sue risorse e mettere a frutto idee creative che da tempo giacevano nella sua mente, impossibilitate a realizzarsi proprio a causa dell’eccessiva spinta interna al loro urgente raggiungimento. Il dcpm ha legittimato un suo bisogno evolutivo, che le parti più rigide della sua personalità le impedivano di ascoltare e prendersene cura.
Adesso sta riflettendo su come poter integrare questo nuovo modo di vivere, con gli aspetti comunque positivi e vitali del modo di vivere precedente. Al di là delle questioni pratiche, si tratta di accettare la propria non-onnipotenza, venire a patti col perfezionismo, e interiorizzare la norma in modo tale da potersi legittimare da sola il “prendersi i suoi tempi”, senza bisogno di riconoscimenti o legittimazioni esterne. Si tratta anche di rivedere il modus operandi precedente, bonificandolo, cioè contenendo la funzione difensiva (finalizzata al “non sentire”), ma recuperando al contempo gli aspetti buoni, quelli ad esempio che la fanno sentire forte, efficace e dinamica. In questo modo, potrà davvero sviluppare una nuova identità, frutto del processo creativo di integrazione fra gli aspetti vitali dei due approcci, vecchio e nuovo, senza dover per forza sacrificarne uno.

Nel caso descritto, la persona ha davvero sfruttato lo “scossone” dello stato di emergenza per mettersi in discussione e aprirsi al nuovo.

In altri casi, la crisi può essere l’occasione per mettere alla prova risorse di resilienza già acquisite, ma di cui ancora non si era consapevoli. Anche in questi casi, è importante prendersi del tempo per rifletterci, fare una sorta di “bilancio della quarantena”, che sancisca in modo chiaro ciò che si è stati in grado di fare. In tal modo sarà più facile, in futuro, recuperare il ricordo di come si è stati capaci di affrontare i propri demoni, un ricordo che sarà molto prezioso quando ci si troverà nuovamente in crisi, perché consentirà il pensiero “Ce l’ho fatta allora, posso farcela anche ora”.  

Conclusione

Dopo questo articolo, spero che sia chiaro come queste settimane non siano solo una fase di limbo, di stallo o di moratoria, ma anzi, siano esattamente quello spazio vuoto di cui tutti abbiamo bisogno per sedimentare, consolidare o rilanciare la nostra capacità di cambiare insieme agli eventi, la nostra resilienza.

Per facilitare questo processo, entrano in gioco a mio avviso almeno tre aspetti: la capacità di tollerare le emozioni, la capacità di riflettere sul senso di questa situazione per ognuno di noi, la narrazione di quanto avvenuto. Ma questa, è tutta un’altra storia!

Se interessati, continuate a seguire i nostri articoli.

BIBLIOGRAFIA

Manfredi, V. M. (2014). Il mio nome è Nessuno.

Janoff-Bulman R. (2006). Schema-Change Perspective on Posttraumatic Growth. In Calhoun L.G. and Tedeschi R.G., editors, Handbook of posttraumatic growth: Research and practice, 81-99. New York: Lawrence Erlbaum Associates

Tedeschi, R. G., Park, C. L., & Calhoun, L. G. (Eds.). (1998). Posttraumatic growth: Positive changes in the aftermath of crisis. Routledge.