Primo esempio: il caso del signor A

Il signor A proveniene da una ricca famiglia del Sud Italia con lontane ascendenze nobiliari. Dopo aver lavorato per anni ad alto livello in aziende multinazionali, soprattutto per seguire una sorta di mandato familiare verso l’eccellenza, ha lasciato la carriera per isolarsi in una villa di campagna, nel paese in cui affonda le sue radici genealogiche, insieme alla moglie (aristocratica a sua volta) e alla figlia.

Anni dopo, sull’onda di una sensazione di progressiva perdita di vitalità (mal compensata da abbuffate furiose) si trasferisce in Lombardia e chiede a un uomo che un tempo lavorava per lui di assumerlo nella sua azienda. La situazione che trova, in questa ripresa della giovinezza, non è semplice: il suo matrimonio mostra tutta la propria fragilità, la persona che lo ha assunto gli dà del capriccioso, dell’arrogante, perfino dell’incapace.

Il signor A si sente molto solo e posto di fronte alle critiche prova una forte vergogna. In terapia parla spesso del padre, di come avrebbe voluto contare qualcosa per lui, dell’impossibilità di sentirsi interessante ai suoi occhi e riporta tristi cene di Natale della sua infanzia: grandi tavolate in cui lui, figlio primogenito, era “uno qualunque uguale a tutti gli altri” e non toccava cibo perché la madre, che aveva ideato il menu, non si era preoccupata dei suoi gusti e delle sue preferenze alimentari.

Secondo esempio: la figlia ventenne

Un uomo di mezz’età, medico, porta in terapia B, la figlia ventenne, molto intelligente e sensibile, affetta da continui e dolorosi problemi fisici, che la inducono a rinchiudersi in casa e a trascorrere intere giornate a letto. Non appena si riprende dalle crisi, la giovane si rifugia in casa del suo ragazzo e cerca di “evadere” il più possibile, trascurando gli studi (salvo poi ricadere nella depressione e nell’ipocondria non appena il dolore si manifesta).

La giovane è molto legata al padre ed è evidente la stima che l’uomo nutre per sua figlia. Anzi, s’intravedono anche chiare somiglianze caratteriali. “Io e lei ci capiamo”, dice.
Aggiunge però: “Vedo che pensa di continuo alla sua sofferenza. Non va bene. Se dai troppa importanza alla sofferenza quella ti determina e non vai più da nessuna parte”.

Quando gli dico che per sua figlia più che “andare da qualche parte” sembra sia importante avere dei momenti di felicità, nel qui e ora, mi risponde: “Mi sembra giusto che B voglia essere felice, ma se non si laurea o se non trova lavoro non si emanciperà mai da noi… e non credo proprio che la vita da mantenuta sia una vita felice. Io alla sua età non vedevo l’ora di andarmene di casa!”.

Successo sociale e  crescita personale

I due brevissimi “casi clinici” qui riportati, nella loro diversità, hanno un tratto in comune, che mi permette di introdurre subito il tema di questo articolo. Restituiscono infatti una difficoltà da parte di individui dotati di indubbie capacità personali di vivere il successo sociale come un momento di crescita personale.

Più specificamente, l’idea che voglio sostenere è che la spinta verso il successo e/o per l’acquisizione di un ruolo sociale gratificante sia ridotta, in situazioni come queste, a due motivazioni:

  • Quella affettiva: “ditemi che sono degno del vostro amore”
  • Quella esibizionistica: “ditemi che sono degno di ammirazione”
Crescita personale

Dimensione di autonomia

Perdendo altre due motivazioni fondamentali, utili per controbilanciare l’angoscia che i primi due tipi sopra elencati portano quasi per forza con sé. Ovvero:

  • Quella emancipativa: “ho i miei obiettivi e voglio essere libero di raggiungerli”
  • Quella del piacere: “seguire i miei obiettivi mi fa sentire bene”

Queste seconde motivazioni, a differenza delle prime, sono inserite in una dimensione di autonomia: l’individuo le ricerca per migliorare sé stesso o perché hanno per lui/lei un valore intrinseco e senza chiedere nulla in cambio.

Voglio premettere che la dinamica che propongo non è per forza legata a una dialettica generazionale né a questioni anagrafiche: ad esempio il signor A, anagraficamente parlando, apparterrebbe alla stessa generazione dei genitori di B, ma a livello psicologico egli ha forti somiglianze con B ed è dunque molto più “Figlio” che “Genitore”.

Tuttavia, va detto che la declinazione affettiva e/o esibizionistica (in termini più specifici si potrebbe dire: narcisistica) del successo sembra davvero predominante nel mondo contemporaneo e questo ingenera probabilmente un effetto circolare. Vale a dire che tutti i giovani sono in qualche modo influenzati dai modelli di successo che si trovano di fronte e possono diventare, una volta adulti (e se dotati di talento), a loro volta modello per altri osservatori.

I “talent-show” e il declino della vittoria

Prendiamoci, ad esempio, un momento per riflettere con attenzione sulle dinamiche di un qualsiasi “talent-show”.
I concorrenti sono in gara tra loro e concorrono per un premio di qualche genere, ma questo elemento, cioè l’obiettivo finale, si perde di vista in moltissime occasioni. Capita di frequente che la buona o cattiva prestazione venga attribuita dal discorso dei giudici non tanto a questioni tecniche, ma alla capacità o incapacità di esprimersi senza inibizioni (gli spettatori di questi programmi saranno di certo familiari con frasi come: “In questo piatto hai messo tutto te stesso”; oppure: “Si vede da come canti che hai ancora dei blocchi mentali”).

Se i giudici fossero psicoterapeuti, si direbbero impegnati in un tentativo di bonificare il “Super-Io” dei concorrenti, ovvero la parte incline all’autocontrollo e al senso di colpa, rischiando però di entrare con loro in un rapporto confusivo di rispecchiamento narcisistico (cioè: “Anche tu puoi essere un individuo eccezionale, ma per riuscirci devi diventare uguale a me”).

Del resto, non è un caso se i giudici non sono psicoterapeuti!
Eppure, perfino quando si tratta di bocciare o respingere qualcuno, il piano affettivo e quello del (mancato) rispecchiamento risultano preponderanti. La sconfitta, il più delle volte, viene attribuita a difficoltà caratteriali e il concorrente eliminato non reagisce con frustrazione, bensì con tristezza, come se avesse deluso le aspettative di un genitore, oppure con vergogna, la vergogna di chi si è esposto e ha fatto una brutta figura.

Quasi mai c’è la sensazione che la cosa più importante fosse davvero vincere o, ancora meno, ricevere il premio finale. Anzi, quei concorrenti che tengono maggiormente al risultato finiscono spesso per essere descritti nella narrativa del “talent” come aggressivi o arroganti e non è raro che uno dei giudici decida di prenderli di petto o cerchi addirittura di umiliarli.

Talent-Show

Un terzo esempio

C, un giovane tra i venticinque e i trent’anni, entra in terapia dopo che le lunghe fasi di isolamento imposte dalla pandemia lo hanno riportato a contatto con i sentimenti di vuoto e di esclusione, con la rabbia e l’invidia per i ragazzi più popolari di lui, che avevano contraddistinto la sua adolescenza. Al momento, ha un lavoro ben retribuito in cui viene valorizzato professionalmente, ma lo vive in modo ambivalente e, in un momento di crisi, distrugge il “laptop” che gli ha fornito la sua azienda.

Nelle sue parole e nei suoi racconti, il successo sociale si misura in termini di consenso, di attenzioni date e ricevute, nel saperci fare con le ragazze e, in ultima analisi, nel sentirsi amato e desiderabile. Si arrabbia (anche) perché gli pare che per essere amato debba mostrarsi condiscendente, ma questo lo renda in automatico meno desiderabile. Riferisce che in adolescenza teneva un diario in cui stilava classifiche tra i compagni di classe, contando la quantità di amicizie di ciascuno come metro della sua “felicità” (e indirettamente della sua forza).

In C la sovrapposizione del tema del successo con temi affettivi e narcisistici è forse ancora più evidente. L’immagine ideale che egli sembra avere di sé stesso è quella di una persona amata e, insieme, anche se a un livello meno esplicito, ammirata. I due ordini di motivazione finiscono per andare in corto-circuito (nel caso di C e non solo), ma ciò che vorrei sottolineare è soprattutto che per questo giovane uomo la realizzazione dei suoi obiettivi senza l’approvazione altrui non sembra particolarmente gratificante.
Anche perché questi non sono mai “suoi e basta”, ma partono proprio dalla ricerca del consenso altrui ed è quindi più che logico che non possano farne a meno.

For the Love of the Game

Lo scrivo chiaramente: non penso che la presenza di moventi esibizionistici e affettivi nella dinamica che ci spinge a nutrire ambizioni di successo sia di per sé un problema. Non voglio neanche sostenere che sia possibile cercare il successo solo per motivazioni intrinseche, ovvero senza esprimere a qualche livello un bisogno di amore e/o di ammirazione e dunque, in fin dei conti, di ricevere qualcosa dagli altri.

Ciò che sostengo, mettendo tra parentesi il meccanismo sociale e passando sul piano relazionale-familiare, è che queste dinamiche possono diventare totalizzanti e opprimenti in persone il cui sviluppo personale, segnato da difficoltà di separazione da figure genitoriali ingombranti e/o da mancanze di riconoscimento affettivo, è stato caratterizzato anche dall’impossibilità di idealizzare una meta.

Mi spiego: ripercorrendo le biografie di sportivi di successo, si scoprirà infatti in molte di esse, che difetti caratteriali e sofferenze simili a quelle del signor A, di B e di C (cioè di separazione e di riconoscimento), sono state almeno parzialmente controbilanciate da una vera e propria adorazione per il proprio sport e da una spinta quasi fanatica verso l’obiettivo finale.

Successo sportivo

Michael Jordan, Kobe Bryant e Marco Pantani sono solo tre esempi tra molti di individui con vicende biografiche difficili (in due casi su tre, anche tragiche), con gravi patologie caratteriali sul versante narcisistico, e che pure, competendo ad alti livelli in uno sport a cui avevano dedicato la loro vita, riuscivano ad ottenere gratificazioni tali da fungere da struttura compensativa, ovvero da permettere loro isole di insperato benessere e pacificazione interiore. Non è un caso che gli agiti distruttivi e/o auto-distruttivi più gravi, sia di Jordan, che di Bryant e Pantani, siano avvenuti quando la tensione verso l’obiettivo si era allentata o, per varie ragioni, era impedita.

Su internet o nelle loro biografie (per chi è interessato, indico dei titoli in bibliografia) si trovano facilmente citazioni che vanno a corroborare questo argomento. Michael Jordan parla di agire “for the Love of the Game” (per l’Amore del Gioco), mentre Pantani ha affermato di andare forte in salita perché solo lì, sulle montagne, riusciva a “mettere fine all’agonia”.

Riporto anche questa frase di Kobe Bryant, che riguarda un periodo molto difficile della sua carriera e della sua vita personale:
“Devi diventare forte, una roccia. Se no non sopravvivi. È stato un anno molto duro. Qui a Los Angeles i media sono molto aggressivi e sì, forse tendono a giudicarmi prima del tempo. Anche i fan sul campo sembra che mi abbiano già giudicato, ma loro sono tifosi, fanno il loro mestiere, non ho nessun risentimento. Gioco a basket, la mia terapia. La mia fuga da ciò che mi sta succedendo. Forse mi diverto più in allenamento che in partita”.

La sottolineatura rimarca il culto ben noto di Kobe Bryant per le sessioni di allenamento, in cui si immergeva con dedizione impareggiabile traendone, a suo stesso dire, un godimento più forte di quello provato in partita. Si tratta di un indizio importante: probabilmente l’esibizione sotto i riflettori e davanti allo sguardo di tutti non riusciva a soddisfare il suo bisogno di strutturare sé stesso e questo avveniva solo tramite la pratica sempre più raffinata dello sport in cui, per sua fortuna, si era scoperto predisposto e da cui era stato ammaliato (sempre Bryant parlava spesso del basket personificandolo, come un’entità a cui si era legato con un “amore ossessivo”).

Mi sembra chiaro che Bryant insistesse con il basket non solo per incontrare l’amore o l’ammirazione altrui, ma anzitutto perché questo richiedeva un utilizzo sano della sua energia e gli offriva una cornice di senso.

Equilibrio in bicicletta

In bicicletta si sta in equilibrio solo se si pedala

Traducendo in termini psicologici quanto sostenuto finora e parafrasando Heinz Kohut, il caposcuola della Psicologia psicoanalitica del Sé, ciò che succede è che la tensione verso obiettivi ideali, che in qualche modo sono visti come difficili da raggiungere, ma anche conformi a valori considerati positivamente (Kohut parla di un Super-Io idealizzato che acquisisce la qualità unica di “suscitare il nostro amore e la nostra ammirazione mentre (ci, ndr) impone il compito del controllo”), rende un soggetto meno vulnerabile a crolli di autostima e/o a crisi di rabbia, depressione, vergogna.

Questa dinamica non si limita a persone dall’infanzia serena e/o fondamentalmente sane. Certamente il riconoscimento del valore di un bambino o di una bambina per ciò che è e non per ciò che fa (o per quanto assomiglia ai suoi genitori) e la presenza di un ambiente sufficientemente attento e responsivo ai suoi bisogni sono gli ingredienti fondamentali per favorire la sua crescita, ma, anche quando questi meccanismi difettano, è possibile ereditare un desiderio e che questa eredità diventi un fattore protettivo (o per usare un termine in voga: di resilienza).

Con “ereditare un desiderio” intendo il mutuare dai genitori e/o dal proprio ambiente (a volte crescere in una famiglia povera può diventare un paradossale fattore di resilienza!) una spinta verso l’alto, verso il futuro, una certa curiosità e fame di vita o comunque un’apertura verso gli altri e verso il mondo. Prendendo questa volta in prestito i discorsi della Psicoanalisi lacaniana, in particolare dell’esperto analista Jean-Paul Hiltenbrand, accade che: “Questo Altro (il genitore, ndr) non è solo interessato a me, bambino piccolo, ma c’è qualcosa d’altro (il mondo al di fuori dalla diade genitore-bambino, ndr) che lo anima”.

Una possibile conclusione è che amare i propri figli non significa far dipendere tutto il mondo da loro, né significa proteggerli da qualunque sfida, qualunque fatica, qualunque opportunità di confronto e di competizione. Il rischio è quello di crescere piccoli aristocratici capricciosi e impossibili da soddisfare, che hanno tutto tranne che lo spazio e il diritto di desiderare qualcosa e che non sono soltanto bisognosi di conferme, ma cronicamente incapaci di goderne quando le riceveno.

Insomma, parafrasando il gesuita Padre Pirrone de “Il Gattopardo”:
“I signori no, non sono così, essi vivono di cose già manipolate. Sono differenti. Forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano: quella della noncuranza dei beni terreni mediante l’assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto (ma, ndr) per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato…ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice e quindi superiore?”

Ebbene, la mia personalissima risposta, che fa anche da chiusura per l’articolo, è no. Di certo non felice e probabilmente nemmeno superiore.
Ma forse la domanda stessa era retorica e conteneva un sottofondo di sarcasmo…

Articolo scritto dal dott. Giulio Corrado Psicoterapeuta

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Bibliografia

  • Bergonzi, Pier; Cassani, Davide; Zazzaroni, Ivan. “Pantani. Un eroe tragico”. Casa editrice – Mondadori.
  • Hiltenbrand, Jean-Paul. “Transfert, Oggetto a, Identificazione”. Casa editrice – Etal./edizioni.
  • Kohut, Heinz. “La Ricerca del Sé”. Casa editrice – Bollati Boringhieri.
  • Lazenby, Roland. “Michael Jordan, la vita”. Casa editrice – 66th and Second.
  • Lazenby, Roland. “Showboat, la vita di Kobe Bryant”. Casa editrice – 66th and Second.
  • Tomasi di Lampedusa, Giuseppe. “Il Gattopardo”. Casa editrice – Feltrinelli.