Di STEFANIA POZZI
Alcune persone convivono per anni con episodi nei quali si sentono improvvisamente distaccate da sé, dagli altri o da ciò che stanno facendo. Si tratta del fenomeno della depersonalizzazione (riferito al Sé) o derealizzazione (riferito all’ambiente circostante). La prima può manifestarsi come senso di intorpidimento in qualche parte del corpo, sensazione che parti del corpo siano irreali, morte o non collegate al resto del corpo; vedersi come dall’esterno, non riconoscersi allo specchio o sentire l’immagine di se stessi come stranamente non-familiare. La derealizzazione compare come senso di alienazione e distacco, come struggente senso di solitudine e lontananza anche quando ci si trova fisicamente in presenza di altre persone, oppure come senso di inconsistenza o irrealtà della propria percezione dell’ambiente.
In ambo i casi, ciò che viene meno è il senso di validità e realtà della propria esperienza soggettiva. Chi sperimenta tali stati mantiene un adeguato esame di realtà, è consapevole, cioè, che non si tratta di una distanza “reale” o di una morte reale del suo corpo; piuttosto, vive una frattura profonda nella propria interiorità, notando che qualcosa nella propria mente non funziona come dovrebbe.
Sono esperienze molto spiacevoli che possono generare sentimenti di ansia, panico, senso di vuoto. Alcuni se ne vergognano, giudicandole una cosa “da matti” e per tale ragione evitano di parlarne apertamente.
Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, circa il 50% della popolazione ne soffre almeno una volta nella vita. I soggetti che ne vengono colpiti con più frequenza sono donne al di sotto dei 40 anni di età e persone alle prese con situazioni particolarmente stressanti o traumatiche. In tali circostanze, la depersonalizzazione/derealizzazione può essere letta come il tentativo di mantenersi distaccati dal senso di pericolo per poterlo meglio affrontare, in una sorta di scissione fra un “io che osserva” e un “io che fa esperienza”.
A volte però questo genere di sensazioni sembra scaturire “dal niente”, ed è questa evenienza ad acuire il senso di allarme di chi le vive. Non ci si capacita di come, a spot, il proprio “io” possa trovarsi improvvisamente catapultato in una dimensione dell’esistenza così diversa e aliena. Una dimensione che certo fa spavento e complica il naturale interscambio fra noi e l’ambiente che ci circonda.
Da un punto di vista diagnostico, esperienze di questo tipo sono classificate fra i disturbi dissociativi, ossia quell’insieme di esperienze basate su una alterazione delle normali funzioni di integrazione della memoria, dell’identità e della coscienza. Tali disturbi sono stati frequentemente spiegati come esito di una problematica elaborazione di esperienze di vita traumatiche, come si avrà modo di approfondire nel prossimo paragrafo.
Fra i diversi sintomi dell’area dissociativa, però, quelli di depersonalizzazione / derealizzazione sembrano occupare un posto tutto loro, diverso dagli altri disturbi che si annotano in quest’area (come l’amnesia dissociativa, la fuga dissociativa, il disturbo dissociativo dell’identità). Mentre il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) continua a far rientrare la depersonalizzazione all’interno dei disturbi dissociativi, un altro sistema diagnostico molto usato nella sanità pubblica, l’International Classification of Diseases (ICD-10), riserva una categoria diagnostica riservata a tali fenomeni. Come già detto, esperienze transitorie di distacco da sé o dall’ambiente sono abbastanza frequenti anche nelle persone che non hanno alcun disturbo psicologico e, inoltre, è raro che simili sintomi costituiscano un disturbo a se stante. Più spesso, esperienze di depersonalizzazione/derealizzazione compaiono all’interno di altri quadri clinici, ad esempio nel corso di gravi forme depressive o di stati di ansia acuta.
VALUTARE LA DEPERSONALIZZAZIONE
Uno strumento semplice ma efficace nell’identificare persone ad alto rischio di un disturbo dissociativo è la Dissociative Experiences Scale (DES), di Carlson e Putnam, un questionario composto da 28 domande nelle quali si chiede alla persona di indicare quanto spesso si trova a vivere una serie di esperienze, da 0% (mai) a 100% (sempre). Le 28 domande si ripartiscono su tre aree: l’amnesia dissociativa (ad es., “Alcune persone si trovano in un posto, senza avere idea di come ci siano arrivate”), il funzionamento dissociativo (ad es. “alcune persone fanno l’esperienza di guidare la macchina o di viaggiare in macchina, autobus o metropolitana e improvvisamente di rendersi conto di non ricordare ciò che è successo durante tutto o parte del viaggio”) e la depersonalizzazione/derealizzazione. Riguardo quest’ultima sub-scala, le domande che la compongono sono:
Alcune persone a volte si sentono come se si trovassero al di fuori del proprio corpo o come se si osservassero dall’esterno mentre fanno qualcosa, e in effetti vedono se stessi come se stessero guardando un’altra persona. |
Ad alcune persone capita di guardarsi allo specchio e di non riconoscersi. |
Alcune persone talvolta hanno la sensazione che gli altri individui, gli oggetti e il mondo intorno a loro non siano reali. |
Ad alcune persone capita di sentire che il loro corpo non sembra appartenergli. |
Ad alcune persone a volte capita di essere in grado di ignorare il dolore. |
Ad alcune persone talvolta capita di sentire delle voci nella propria testa, che dicono di fare delle cose o che fanno commenti sulle loro azioni. |
A volte alcune persone si sentono come se stessero guardando il mondo attraverso uno strato di nebbia, per cui oggetti o individui appaiono loro lontani e sfocati. |
Il punteggio si calcola sull’intera scala; il rischio che sia presente un disturbo dissociativo si pone quando i punteggi medi delle 28 risposte superano il 30%. Al contempo per uno scopo clinico, è possibile calcolare il punteggio medio all’interno di ciascuna delle tre sub-scale.
Nella mia pratica di psicoterapeuta, ogni questionario clinico che propongo ai miei clienti è una occasione per poterci confrontare su determinate tematiche, chiarendo insieme il senso soggettivo delle risposte date. Non considero mai il punteggio dei questionari come un indicatore determinante, ma piuttosto come un mediatore che ci permette di dialogare ampliando il campo della condivisione, e questo vale anche per la somministrazione della scala DES. È curioso come a volte le persone, che nel colloquio provano vergogna per certi loro stati interni, quando li trovano scritti nel questionario trovano una sorta di legittimazione al poterne parlare, processo che io ulteriormente supporto esplicitando il fatto che a chiunque può capitare di provare questo o quello stato, e che sono interessata a comprendere il modo specifico con cui la persona lo vive e vi attribuisce un senso soggettivo. In tale maniera mi è capitato ad esempio di appurare come l’esperienza di sentirsi fuori dal proprio corpo in alcuni casi era legata più ad un vissuto di profonda solitudine (la mancanza di un altro che condivida l’esperienza soggettiva, rende meno significativa l’esperienza stessa), che ad una forma vera e propria di dissociazione.
DEPERSONALIZZAZIONE CRONICA E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA
Nel libro “Il corpo accusa il colpo” Bessel van der Kolk descrive gli effetti neurobiologici delle esperienze traumatiche, indicando come nelle persone con disturbo post-traumatico (PTSD) complesso si sviluppino pattern di connessioni e attivazioni neuronali anomale, in particolare per quanto riguarda le aree cerebrali deputate a darci il senso di noi stessi, del nostro corpo e del nostro essere soggetti viventi. Egli cita unno studio del 2004 di Ruth Lanius che evidenziava, nelle persone con PTSD da trauma dello sviluppo precoce e grave una ridotta attivazione della corteccia prefrontale mediale (deputata a funzioni di monitoraggio dell’attività mentale), dell’insula (una sorta di ricetrasmittente che riceve i messaggi dai nostri visceri interni – ad es. il senso di acidità nello stomaco – per mandarli ai centri “emotivi”), dei lobi parietali (che integrano le informazioni sensoriali) e del cingolato anteriore (che coordina pensiero ed emozioni).
L’ipotesi esplicativa è che le persone imparino a “spegnere” le aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni del terrore, per non sentirlo. Il problema è che quelle stesse aree cerebrali si occupano anche di registrare l’intera gamma delle emozioni e sensazioni che ci fanno sentire di essere vivi e presenti a noi stessi. In altre parole, «nel tentativo di annullare le sensazioni terrificanti, i pazienti traumatizzati mortificano la capacità di sentirsi pienamentevivi». Abuso emotivo cronico e trascuratezza, il “non essere visti”, non essere riconosciuti, non avere a chi rivolgersi per sentirsi al sicuro, possono lasciare un senso di disconnessione dal proprio corpo, che impedisce alle persone di sentire intere aree del corpo o di riconoscere adeguatamente gli oggetti con cui entrano in contatto. Queste persone, perdendo il contatto col loro Sé corporeo, stentano a sentirsi pienamente vive. Alcuni nel sentirsi “morti dentro”, ricorrono a comportamenti apparentemente distruttivi, come ferirsi la pelle o svolgere attività sessuale compulsiva, al fine di sentirsi più consistenti e vivi. Spesso si vergognano di tali comportamenti ma ne sono dipendenti, perché diventano l’unico modo a disposizione per sentirsi meglio, per uscire dal torpore della perdita del proprio senso di Sé.
IL RUOLO DELLA SINTONIZZAZIONE PRECOCE GENITORE-BAMBINO NELLO SVILUPPO DELL’INTEGRAZIONE MENTE/CORPO
Per quanto forme croniche dei disturbi dissociativi siano notoriamente associate alla mancata elaborazione di esperienze traumatiche, non tutto ciò che riguarda la depersonalizzazione ha a che vedere con episodi traumatici in senso stretto. La letteratura sulla psicologi infantile e la prospettiva intersoggettiva suggeriscono che, alla base di un sano sviluppo del senso di Sé e dell’integrazione mente/corpo, vi sia la qualità delle cure ricevute fin dai primi mesi di vita.
Lo psicanalista e pediatra Donald Winnicott coniò la felice espressione di “senso di dimorare all’interno del proprio corpo”, per intendere lo sviluppo di un senso di armoniosa confidenza col sé corporeo, dove la psiche viene percepita come profondamente radicata nel corpo, ed il confine corporeo svolge anche una funzione di confine soggettivo fra sé e il mondo esterno. Nessuno di noi nasce con questo tipo di consapevolezza mentale “incarnata”, ma la si sviluppa attraverso il modo con cui il proprio corpo viene gestito dalle figure più significative.
La relazione fra adulto e bambino si sviluppa anzitutto come contatto fisico. Il neonato non può “capire” i pensieri dell’adulto, ma “sente” se viene preso in braccio in modo caldo e avvolgente, fermo, rassicurante, oppure se le braccia di mamma e papà sono rigide e tese, sente la qualità degli strofinamenti pelle-pelle che avvengono nel cambio del pannolino, nell’abbraccio, nelle carezze, nell’allattamento, e da questo comprende ad un livello implicito, non-verbale, se chi si prende cura di lui lo fa con partecipazione emotiva o con distacco, se il proprio corpo di neonato è qualcosa che genera negli altri esperienze di piacevolezza oppure di paura e disgusto. Quando un neonato è in preda a sensazioni emotivamente disturbanti, il modo migliore per aiutarlo a calmarsi e ritrovare il suo equilibrio è di cullarlo nella maniera più adatta a quel particolare stato di agitazione che prova.
La maggior parte dei genitori sa che non esiste un unico modo giusto per farlo: lo stesso bambino può avere bisogni di contatto fisico diversi in diversi momenti. Momento per momento, gli adulti devono essere in grado di sintonizzarsi sulle sensazioni e l’attività motoria del loro bambino.
A volte i neonati hanno bisogno di essere tenuti saldamente fra le braccia per recuperare un senso di sicurezza, sentendo che non corrono il rischio di cadere e andare in pezzi, ma anzi, che qualcuno protettivo e amorevole li “tiene insieme” e, coccolando in modo dolce, li aiuta a calmarsi.
Altre volte il bisogno è invece di ricevere una stimolazione eccitante, che faccia aumentare la loro attenzione e l’attività generale del bambino (‘arousal’), come capita quando si gioca o si balla insieme.
Un’adeguata sintonizzazione senso-motoria da un lato comunica al piccolo che i suoi vissuti sono stati ben compresi, dall’altro che è possibile fare qualcosa di concreto per aiutarlo a raggiungere lo scopo di cui ha bisogno (ad es. rilassarsi, coinvolgersi nell’esplorazione con senso di curiosità, socializzare, mangiare, etc.). Queste esperienze sono i mattoni fondamentali per costruire la fiducia nella possibilità di essere capiti e di essere in grado di affrontare efficacemente gli stati psico-fisici disturbanti (inizialmente grazie ad un aiuto esterno, più avanti, man mano che le competenze del piccolo maturano, potrà farlo da solo, “autoregolando” i suoi stati interni). Tutto questo contribuisce a sua volta a consolidare la confidenza dei bambini coi loro stati somatici e l’integrazione degli stessi con l’esperienza psicologica soggettiva.
PROBLEMI DI SINTONIZZAZIONE
A volte la sintonizzazione senso-motoria manca del tutto o è difettosa. Ad esempio il genitore si sintonizza in modo discontinuo, cosicché il bambino rimane sempre in allerta perché non può sapere quando i suoi richiami saranno efficaci oppure no. Altro esempio è l’adulto che si prende cura di lui solo ad un livello superficiale, senza partecipazione emotiva; in questi casi il bambino sente che per l’adulto prendersi stare con lui è solo un dovere ma non un piacere.
A volte le interazioni adulto-bambino sono delle vere e proprie “intrusioni” che non solo non danno sollievo, ma addirittura acuiscono lo stato di disagio del piccolo. Un esempio è l’adulto che, preso dall’ansia di essere notato dal suo bambino, continua a solleticarlo, a impedirgli di distogliere lo sguardo, di riposarsi, gli parla sempre con voce stridula e agitata, lo scrolla in modo convulso, aumentando l’agitazione e il pianto del bambino secondo escalation esasperanti. Se questo genere di contatti intrusivi si ripropone continuamente, genera nel bambino la sensazione che nulla si può fare per trovare un po’ di calma, se non smettere di prestare ascolto alle sensazioni sgradevoli.
Difetti di sintonizzazione possono compromettere la formazione del senso di “dimora interna”, che si esprimerà su un continuum di vari livelli di disconnessione mente-corpo. Stati estremi di disconnessione mente-corpo si realizzano quando i bambini sono stati esposti in epoca molto precoce a gravi difficoltà di sintonizzazione, alla presenza di forme di contatto marcatamente intrusive, o a esperienze traumatiche con rischio di morte o di minaccia alla sopravvivenza del Sé (ad esempio, assistere a scene di violenza familiare o subire in prima persona abusi fisici, sessuali o psicologici, come gravi minacce). In tali circostanze i bambini non solo si distanziano dai loro vissuti troppo intensi e non-tollerabili (la dissociazione traumatica) ma, non potendo mai fare l’esperienza di qualcuno che capisca il loro stato interno, faticano a capirlo a loro volta, col risultato che il famoso “senso di dimora interna” non si sviluppa del tutto. Da adulti possono incorrere in gravi stati di spersonalizzazione e mancata integrazione mente-corpo, come i cosiddetti “viaggi extracorporei”.
Stati intermedi di disconnessione mente-corpo consistono nella sensazione che la mente aleggi fuori dal corpo, che la mente sia solo nella testa e come staccata dal resto del corpo (che spesso viene vissuto come qualcosa di ripugnante), o in una identificazione con un punto di vista esterno e critico, per cui il sé corporeo viene vissuto come fonte di vergogna o paura e diviene oggetto di controlli minuziosi sulla sua adeguatezza (estetica o di salute). Queste esperienze possono derivare, oltre che da abusi sessuali infantili, anche da conflitti sulla manifestazione dei propri desideri corporei, come il desiderio di un contatto fisico tenero. A volte i genitori confondo il bisogno di contatto sensuale (es. la piacevolezza di un abbraccio o di una voce dolce) con quello sessuale, mandando messaggi di disapprovazione anche per espressioni di ricerca di contatto del tutto lecite. Il bambino sarà poi confuso sull’adeguatezza dei suoi bisogni e potrebbe sviluppare un carattere inibito. Infine, può capitare che il bambino impari che, per mantenere legami sicuri con le sue figure di riferimento, debba adeguarsi ai parametri esterni, abbandonando la propria esperienza non rispecchiata e sostituendola con una prospettiva esterna; questo impedisce di sentirsi autenticamente immersi nella propria esperienza soggettiva, quindi la soggettività diventa qualcosa di alieno e che confonde… una premessa centrale in alcune forme di depersonalizzazione.
SINTONIZZAZIONE E PSICOTERAPIA
Per queste ragioni, è oltremodo importante nella psicoterapia esplorare le esperienze, verbali e non-verbali, che connotano le modalità di interazione fra il sé e gli altri. Una domanda che trovo molto utile fare quando le persone mi parlano delle loro difficoltà a sentirsi a proprio agio col loro corpo e delle varie forme di depersonalizzazione, è: “se pensa ai suoi primi mesi di vita, come immagina che sua madre/suo padre/sua nonna…. (la figura di accudimento principale) la teneva in braccio e si prendeva cura di lei?”. In un primo momento le persone rimangono spiazzate commentando, a ragione, che non se lo possono ricordare.
Allora io ribadisco che ciò che ci interessa non è ricostruire una verità oggettiva, ma come funziona l’esperienza soggettiva attuale; quindi, suggerisco di limitarsi ad immaginare: anche se non ci hanno mai pensato fino a quel momento, ora che tipo di scene immaginano? Solitamente emergono moltissimi elementi degni di nota, che ci consentono di proseguire l’avventura esplorativa nei più profondi meandri dell’esperienza senso-motoria, che nasce da, e al contempo da forma a, il senso del sé emotivo e corporeo.
Ricostruire il filo conduttore dell’esperienza soggettiva e delle sue vicissitudini nelle trame relazionali, pregresse e attuali, è una impalcatura fondamentale per aiutare le persone a ritrovare, talvolta a costruire, il loro senso di autenticità e presenza consapevole nel qui-ed-ora.
Ciò che al principio sembrava “una cosa da matti”, comincia ad assumere una sua coerenza, un suo senso adattativo. Può essere visto come qualcosa di meno alieno e più comprensibile… una comprensione non solo razionale, ma anche emotiva, una compassione amorevole verso quelle esperienze interne inizialmente tanto detestate. L’abbraccio sincero che era mancato, può essere dato da se stessi a se stessi, attraverso questa progressiva capacità di riconoscersi e di avere auto-compassione.
Naturalmente, un secondo aspetto centrale in tale processo è dato dalle interazioni reali e non-verbali che accadono nella stanza di analisi. Cosa accade al Sé di un paziente, quando sente il suo psicoterapeuta parlargli con voce calma, accogliente e rassicurante, nei momenti in cui si sente più agitato? O usare battute di spirito “al momento giusto”, interagendo con vitalità? O guardarlo negli occhi con uno sguardo presente e accettante, uno sguardo pieno di comprensione e scevro da giudizi, quando il paziente parla, forse per la prima volta, di esperienze che lo riempiono di vergogna?
La sintonizzazione emotiva senso-motoria che avviene nelle interazioni reali fra pazienti e terapeuti è il terreno basilare dove porre le fondamenta di una nuova casa, o impiantare le impalcature per i lavori di restauro… affinché un giorno il cliente possa cominciare a sentirsi bene nella sua “dimora interna”.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Association, Ed. it. Massimo Biondi (a cura di), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano: Raffaello Cortina, 2014
Gabbard, G.O. (2007). Psichiatria Psicodinamica (quarta ed.). Milano: Raffaello Cortina.
World Health Organization. International statistical classification of disease and health related problems. ICD-10. Ginevra 2007
Storolow, R.D., & Atwood, G.E. (1995). I contesti dell’essere. Torino: Bollati Boringhieri
Van der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Milano: Raffaello Cortina
Segnaliamo il nuovo articolo scritto recentemente dalla dott.ssa Pozzi sullo stesso tema a quattro anni di distanza da questo articolo. leggi qui
Io soffro tanto di derealizzazione e depersonalizzazione sembra e paura di diventare pazzi. Dove curarsi a Torino c’è un rimedio?
Io ci soffro da 3 annetti. Il tutto è successo quando ho fumato dell’erba ed ho avuto questi episodi. Non so se gia ci soffrissi oppure se è colpa dell’erba, tuttavia quando mi è capitato dopo aver fumato, è stata un esperienza molto traumatica, pensavo di impazzire. Depersonalizzazione e derealizzazione insieme, mi sembrava di perdere il controllo. In realtà non si perde il controllo e né si impazzisce, bisogna saper gestire la situazione senza pensarci troppo e alimentare il problema. In seguito, mi è ricapitato altre 3 volte in situazioni di grande stress emotivo/fisico e inoltre mi è capitato quando visito posti nuovi che non conosco.. Lontani da casa, forse per paura del nuovo. L’unica cosa che mi infastidisce è che quando arriva è come se il cervello si spegnesse per quel secondo o minuto che sia e mi capita come un black out o anche il non sentire gli altri e la cosa mi preoccupa perche è come se mi bloccassi, se non fossi piu presente nel mondo reale e la cosa mi preoccupa se mi potesse capitare in momenti in cui sto facendo qualcosa in cui bisogna “esserci”, brutta come sensazione. Poi lo so gestire e mi passa. Per chi ne soffre vorrei dire di stare tranquilli e non pensarci, passa.. È solo una difesa del nostro cervello.
Salve dottoressa, mio figlio di 16 anni, da pochi giorni, così all improvviso, ha cominciato a dire di sentirsi strano, aveva e ha difficoltà a spiegare il suo malessere, dice di fare le cose senza rendersene conto, oppure se vede un video ha bisogno di rivederlo. Innamorato della moto non la sta nemmeno prendendo perché dice che è come se non riuscisse a controllare le distanze, da ieri è subentrata fortissima ansia, che gli chiude lo stomaco. L ho portato dalla dottoressa di famiglia che è specializzata in Neurologia, gli ha fatto una visita accurata dalla quale non è emerso nulla, gli ha prescritto un po’ di analisi e l elettroencefalogramma. Secondo lei si tratta di dispercezione. Alche ho chiesto “questa dispercezione può essere causa di stress?” mi ha risposto “assolutamente si”, Alche le ho raccontato che in questo ultimo periodo oltre ad un trasloco quasi traumatico, c è stata la perdita del lavoro, io sono tral altro separata e vengo da una separazione non tranquilla, visto che il mio ex marito a volte mi alzava le mani e verbalmente o con i dispetti era tremendo. Di lì, mi ha prescritto una consulenza neuropsichiatrica.
Per esempio, ieri ho dato il mio regalo di natale (50 euro) si è messo a piangere e ha detto “mamma tu fai tante cose per noi” poi abbiamo fatto una lunga videochiamata di gruppo con la mia famiglia (attualmente ho il Covid quindi non ci è stato possibile stare tt insieme). Voleva dormire con me, alche gli ho detto “dormi nel tuo letto, se senti di voler dormire con me vieni!”, dopo un po’ gli ho chiesto come stesse e mi ha risposto “mi sento libero”. Stamattina si è svegliato dicendo, accennando un sorriso, che si sentiva meglio. Poi tutto è ritornato subito dopo la doccia perché doveva trascorrere il pranzo con il padre, non ci voleva andare, ma gli ho detto “vai, magari ti fa bene, se non ti senti poi ti fai riaccompagnare.
Non ha mangiato nulla e ora dorme.
Cosa posso fare per aiutarlo? Di cosa si può trattare? Sono tanto preoccupata.
Grazie dottoressa per la risposta che vorrà fornirmi.
Buongiorno Valentina,
concordo con il vostro medico MMG, neurologa, che sia opportuna una presa in carico neuropsichiatrica e psicoterapeutica, per poter contestualizzare e capire più a fondo il senso di questo malessere che riporta suo figlio. Ritengo altresì importante esplorare con dei professionisti le dinamiche affettive e comunicative familiari, da affiancare al lavoro individuale con il ragazzo.
Essendo lui minorenne, è possibile accedere al servizio di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (NPIA) dell’ospedale a voi più vicino, dove solitamente lavorano equipe integrate multi-professionali.
Spero di averle dato una risposta utile, se avesse esigenza di ulteriori chiarimenti mi può contattare a psicologa.pozzi@gmail.com
un cordiale saluto
Stefania Pozzi
Salve, io da Giugno 2019 dopo uso di MDMA ad una serata, passati i giorni di Down dopo la serata, ho accusato gravi problemi psicofisici. Da quel momento uno stato di Derealizzazione misto a Depersonalizzazione mi ha colpito in maniera cronica. Premetto soffrivo a spot di forti attacchi sin da bambino. Credo che MDMA abbia aperto io vaso di Pandora. Vorrei poter capire se posso trovare un rimedio. Riesco a svolgere tutte le attività, sembra un po migliorata, ma ad oggi continuo ad avere questo disturbo. Il vostro articolo tocca dei temi in cui mi sono ritrovato molto (ad esempio il trauma infantile). Posso avere un incontro con chi ha scritto l’articolo? C’e modo di valutare una seduta? Davvero mi piacerebbe avere una risposta al mio problema. Grazie.
Buongiorno Dario,
sono Stefania Pozzi, psicoterapeuta, autrice dell’articolo in oggetto.
Spesso capita che il disturbo da derealizzazione venga “slatentizzato”, o esacerbato in una forma che poi si cronicizza, a seguito dell’utilizzo di sostanze che alterano la percezione sensoriale, specialmente quando tale utilizzo viene fatto come forma di “automedicamento” per delle ferite psicologiche pregresse, e quando si inseriscono pensieri ripetitivi (del tipo: “e se rimarrò così per sempre?”) che cristallizzano la paura di impazzire. Bisognerebbe approfondire la funzione di equilibrio emotivo svolta da questo genere di pensieri e la fenomenologia degli episodi di derealizzazione, cioè come nello specifico si presentano, soggettivamente, per lei. Oltre ad una anamnesi accurata personale e familiare.
La questione, come descritto nell’articolo, è molto complessa e richiede una valutazione caso per caso. Possiamo sicuramente valutare una seduta. Lo studio si trova a Varese, nel centro città (via Bernascone 18, 21100 Varese – VA), e ricevo nelle giornate di lunedì, giovedì, venerdì e il sabato mattina. Sebbene sia praticabile anche la formula dei colloqui online (videochiamata), per questo genere di disturbi e per le prime visite, lo sconsiglio, raccomandando invece un incontro in presenza.
Se vuole può contattarmi al numero di telefono +39 333 45 29 162, o mandare una e-mail a info@centropsicologiavarese.it
Un cordiale saluto
dr.ssa Stefania Pozzi
Buonasera mi chiamo Alessandra e io da circa nove mesi dopo un forte stress vivo come se ormai non esistessi più . Non percepisco più nulla del mio viso del mio sguardo come se fossi morta .. è terribile! Seguimi una terapia farmacologica che consiste in una compressa di xanax la mattina e 6 gocce di haldol , ma niente sono sempre stordita e mi cerco in continuazione 😔faccio un percorso psicoterapeutico ma non vedo miglioramenti in niente, credo che la mia vita sia finita!
Gentile Alessandra,
innanzitutto, mi dispiace molto di risponderle solo adesso, c’è stato un problema informatico per cui non avevo letto il suo commento.
Il disturbo di depersonalizzazione può essere causa di grandissima angoscia e comprendo la difficoltà a ritrovare la speranza. Al contempo, da alcuni anni ormai mi occupo di questa tematica, attraverso il lavoro con diverse persone che, come lei, ci convivono per lunghi periodi di vita, e per quanto non sia facile, si può affrontare questo sintomo, che, se ben incanalato, può diventare una spinta ad un cambiamento evolutivo prezioso.
Da quello che descrive, intuisco un forte stato depressivo di base, per il quale sarebbe opportuno una terapia farmacologica mirata . Le consiglierei sicuramente di rivedere col suo specialista questo tipo di terapia, fare una valutazione approfondita di tipo psicodiagnostico e anamnestico, per meglio inquadrare i sintomi di depersonalizzazione/derealizzazione, e discutere con lo/la psicoterapeuta che la sta seguendo dei motivi della sua insoddisfazione riguardo al percorso intrapreso. A volte parlarne aiuta molto a recuperare una direzione più proficua.
Se poi volesse un parere più mirato, possiamo concordare un appuntamento per un colloquio, dove parlare più estesamente della sua situazione, a tal proposito, le lascio il mio recapito telefonico: +39-3334529162
Un cordiale saluto e l’augurio di poter ritrovare le redini della sua vita.
Stefania Pozzi
Salve sono una ragazza di 20 anni quasi 21 tra due giorni … le scrivo per raccontarle la mia storia e ricevere un vostro conisglio /opinione .
A l età di 17 anni in una giornata tranquilla ai miei occhi ho avuto un attacco di panico improvviso che durato tante ore visto che non capivo cosa mi stesse succendendo non sono potuta rientrare a casa perche nessuno poteva accompagnarmi mi sono ritrovata a vivere questa esperienza fuori con degli amici fino a quando non sono riuscita a rientrare . Una volta a casa il medico di famiglia mi ha dato 10 gocce di calmante che non mi sono state purtroppo di aiuto non c’era nulla da fare ero in panico e non mi calmavo finché non debbi andare in ospedale… una volta all ospedale inizii a calmarmi grazie ai medici che si comportarono in modo normale e calmo e normalizzando una situazione che per me era orribile come se stessi per morire . Da quel giorno iniziò la mia piu grande lotta contro me stessa con i giorni mi resi conto che quello che mie era successo mi aveva cambiata in peggio non mi riconoscevo più e sono subbentrate in me paure su paure … ho iniziato a non andare a scuola per paura di stare male e di non saper cosa fare e a smettere di uscire dopo 8 mesi più o meno con la mia famiglia abbiamo deciso di trasferci all estero io ero molto contenta di trasfermi é stato difficile per me affrontare il viaggio senza cadere nella paura di stare male ma c’è l’ho fatta sono arrivata in francia il 9 giugno 2019 e da quel giorno mi ero promessa di cambiare vita e di combattere di darmi una vita normale e di non arrendermi lavorai su me stessa tutti i giorni iniziai a uscire e a allontarmi sempre di più dalla mia zona confort mi innamorai di un ragazzo forte calmo sensibile e coraggioso l’opposto di quello che sono io oggi con il tempo ho iniziato a prendere in considerazione il suo modo di essere e di reagire alla vita cercai d’imparare a essere più coraggiosa e a non piangermi sempre addosso a passi piccoli ho iniziato a vivere una vita normale e a contrallare le mie paure …. ero sicura di aver tutto dietro di me molto lontano é che ormai però era passato sapevo però che dopo aver conosciuto gli attachi di panico ero cambiata non ero piu la stessa ragazza ero diventata più fragile ero paranoica e sempre un po’ con il voler controllare tutto , ma ormai ero guarita controllavo e se avevo un attacco di panico durava poco e una volta passato riprendevo la mia vita senza fermarmi e chiedermi perché? mi ero abituata a questa sensazione conoscevo questo malessere e sapevo che faceva parte di me anche se l odiavo sapevo che c’era e quindi accettavo più o meno e riprendevo il corso della mia vita . Ero molto contenta di aver riniziato a vivere e di essere ritornata a sorridere e a vivere davvero finché non decisi di trasfermi con il mio ragazzo in svizzera e iniziare una convivenza e una nuova esperienza di vita per tutte due le cose andaranno molto bene trovammo lavoro e appartamento eravamo felici di quello che avevamo costruito ma un giorno persi il mio lavoro la cosa mi rattristro molto perché era il mio primo contratto indeterminato e perché iniziai a farmi tanti pensieri su come avremmo fatto con un solo stipendio se non avessi trovato subito lavoro . I primi giorni ero molto determinata a trovare un nuovo lavoro ed ero sicura di non buttarmi giu mi ero detta che non avrei mai piu voluto cadere in basso come tanto tempo fa ma con i giorni che passavano sentivo dentro di me un peso nel cuore una strana sensazione sentivo tristezza angoscia è indescrivibile la sensazione … sentivo questo sentimento crescere giorno per giorno finché decisi di ritornare a vivere in francia e di lasciare tutto quello che avevo costruito e così fu tornai in francia pensando che il problema ormai era solo il posto e la delusione di come tanti sacrifici non sono bastati per farmi avere un po di pace ma una volta tornata in francia iniziai a sentire di nuovo quell ansia delle prime volte adesso e da novembre che vivo una vita molto triste non riesco ad allontanarmi di casa se lo faccio e solo per poco tempo sto rivevendo quello che ho vissuto all eta di 17 anni nello stesso modo e non ne capisco il motivo di tutta questa paura visto che ormai avevo imparato a reagire sono molto preoccupata et rattristata di rivevere tutto questo dopo 3 anni e mezzo di vita normale .
Mi rendo conto che il mio modo di reagire alle mie ansie non mi apprtengono in realtà non ne ho mai capito niente di tutto questo sono sempre stata una ragazza forte e che reagisce immediatamente che non ama perdere tempo e che ama la vita ma dopo il mio primo attaco di panico ho perso molte parti del mio carattere per me essenziali non mi sento libera mi sento prigionera di un IO che non sento mio . Vorrei riuscire a superare tutto questo una volta per tutte e capire perche mi sento cosi spaventata sono consapevole del fatto che per me vivere un attacco di panico a 17 anni e il fatto che nessuno potesse riportarmi a casa come lo desideravo ha provocato in me un vero é proprio trauma e la paura di allontanarmi so che viene da la ma non capisco cosa sia successo nella mia testa adesso non capisco perche sto vivendo un qualcosa che ormai conosco e che avevo già affrontato come se fosse la prima volta . Sono consapevole che il fatto di perdere il lavoro abbia riaperto il tutto anche perché non ero felice in quel posto ero felice di avere una bella casa e un bel stipendio insieme al mio ragazzo ma non ero felice di vivere in montagna ecc mi sono sentita molte volte sola ecc ma in ogni caso non riesco a capire perche dono caduta cosi in basso allora che so benissimo di soffrire di ansia e che fa parte di me e che niente é nuovo … vorrei capire quindi perché la rivivo con piu o meno la stessa intensità a volte penso di non farcela e di essere persa per sempre ma in realtà so che c’è la farò ne sono consapevole l’ho già affrontato una volta e l’ho fatto da sola ma so che mi ci vorrà tempo in ogni caso vorrei capire e ascoltate un vostro pensiero …. ho tanta voglia di riprendere le mie abitudini di riprendre il lavoro e di divertimi di nuovo come una ragazza di 21 anni .
Grazie mille per l’ascolto
Buongiorno Alessandra,
capisco il dispiacere di sentirsi sopraffatta da questo stato di angoscia, che sta limitando la sua vita ed i suoi progetti.
Come lei descrive, a molte persone capita di vivere il primo “attacco di panico” come un trauma che si porta via pezzi di sé, sentendosi deprivati e arrabbiati con il sintomo. Allo stesso tempo, il cosiddetto “panico” è esso stesso un risvolto di qualche disequilibrio psicologico, sia come esperienza emotiva pregressa che è stata difficile da elaborare, sia come funzione di “blocco” al proprio processo di crescita ed autonomia, magari in un contesto dove , paradossalmente, questo obiettivo può essere vissuto da alcune parti di sé come un pericolo per l’equilibrio personale e relazionale esistente… insomma, è un po’ complessa la faccenda e andrebbe affrontata a mio avviso con un professionista.
Farsi ispirare da persone “forti” è sicuramente di aiuto, in alcuni frangenti, ma se questa parte di sé che si sente fragile e spaventata persiste, evidentemente ha bisogno di essere accolta e affrontata (in un modo diverso dal “cercare di cacciarla via”), insieme ad un professionista (psicoterapeuta) per poter poi riprendere la sua vita con basi più solide.
Ha già dimostrato di avere risorse per cavarsela e mettersi in gioco; fermarsi un attimo, per consentire di unire le parti di sé intraprendenti con quelle più vulnerabili, può rivelarsi molto costruttivo per il suo benessere attuale e futuro.
Le auguro di trovare la strada verso la sua “casa” interiore.
Stefania Pozzi
Grazie, Dott.ssa Stefania Pozzi, il Suo saggio è di un interesse estremo, sia dal punto di vista scientifico che umano. Le segnalo – se può essere di qualche interesse o pertinenza con la materia da Lei così bene conosciuta e trattata – che singolari episodi che oggi potrei definire di “depersonalizzazione” o anche di “derealiazzaione mi sono occorsi – occasionalmente – nei mesi antecedenti ad un episodio di epilessia parziale, avvenuto durante un evento pubblico – e che portò poi ad un trattamento con “Gamma Knife” di una MAV (Malformazione Artero Venosa) al lobo temporale destro. Anche dopo il trattamento in oggetto, benché in maniera del tutto sporadica e spesso in condizioni di stress estremo, registro ancora qualche episodio che, tutto sommato, vivo bene perché trovo la materia estremamente interessante e di conseguenza … mi autoosservo da fuori (com’è giusto che sia, in un caso di temporanea depersonalizzazione). Un cordialissimo saluto con grande stima. Alberto Cantone