Di STEFANIA POZZI

Alcune persone convivono per anni con episodi nei quali si sentono improvvisamente distaccate da sé, dagli altri o da ciò che stanno facendo. Si tratta del fenomeno della depersonalizzazione (riferito al Sé) o derealizzazione (riferito all’ambiente circostante). La prima può manifestarsi come senso di intorpidimento in qualche parte del corpo, sensazione che parti del corpo siano irreali, morte o non collegate al resto del corpo; vedersi come dall’esterno, non riconoscersi allo specchio o sentire l’immagine di se stessi come stranamente non-familiare. La derealizzazione compare come senso di alienazione e distacco, come struggente senso di solitudine e lontananza anche quando ci si trova fisicamente in presenza di altre persone, oppure come senso di inconsistenza o irrealtà della propria percezione dell’ambiente. 

In ambo i casi, ciò che viene meno è il senso di validità e realtà della propria esperienza soggettiva. Chi sperimenta tali stati mantiene un adeguato esame di realtà, è consapevole, cioè, che non si tratta di una distanza “reale” o di una morte reale del suo corpo; piuttosto, vive una frattura profonda nella propria interiorità, notando che qualcosa nella propria mente non funziona come dovrebbe.

Sono esperienze molto spiacevoli che possono generare sentimenti di ansia, panico, senso di vuoto. Alcuni se ne vergognano, giudicandole una cosa “da matti” e per tale ragione evitano di parlarne apertamente. 

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, circa il 50% della popolazione ne soffre almeno una volta nella vita. I soggetti che ne vengono colpiti con più frequenza sono donne al di sotto dei 40 anni di età e persone alle prese con situazioni particolarmente stressanti o traumatiche. In tali circostanze, la depersonalizzazione/derealizzazione può essere letta come il tentativo di mantenersi distaccati dal senso di pericolo per poterlo meglio affrontare, in una sorta di scissione fra un “io che osserva” e un “io che fa esperienza”.

A volte però questo genere di sensazioni sembra scaturire “dal niente”, ed è questa evenienza ad acuire il senso di allarme di chi le vive. Non ci si capacita di come, a spot, il proprio “io” possa trovarsi improvvisamente catapultato in una dimensione dell’esistenza così diversa e aliena. Una dimensione che certo fa spavento e complica il naturale interscambio fra noi e l’ambiente che ci circonda. 

Da un punto di vista diagnostico, esperienze di questo tipo sono classificate fra i disturbi dissociativi, ossia quell’insieme di esperienze basate su una alterazione delle normali funzioni di integrazione della memoria, dell’identità e della coscienza. Tali disturbi sono stati frequentemente spiegati come esito di una problematica elaborazione di esperienze di vita traumatiche, come si avrà modo di approfondire nel prossimo paragrafo.

Fra i diversi sintomi dell’area dissociativa, però, quelli di depersonalizzazione / derealizzazione sembrano occupare un posto tutto loro, diverso dagli altri disturbi che si annotano in quest’area (come l’amnesia dissociativa, la fuga dissociativa, il disturbo dissociativo dell’identità). Mentre il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) continua a far rientrare la depersonalizzazione all’interno dei disturbi dissociativi, un altro sistema diagnostico molto usato nella sanità pubblica, l’International Classification of Diseases (ICD-10), riserva una categoria diagnostica riservata a tali fenomeni. Come già detto, esperienze transitorie di distacco da sé o dall’ambiente sono abbastanza frequenti anche nelle persone che non hanno alcun disturbo psicologico e, inoltre, è raro che simili sintomi costituiscano un disturbo a se stante. Più spesso, esperienze di depersonalizzazione/derealizzazione compaiono all’interno di altri quadri clinici, ad esempio nel corso di gravi forme depressive o di stati di ansia acuta

VALUTARE LA DEPERSONALIZZAZIONE

Uno strumento semplice ma efficace nell’identificare persone ad alto rischio di un disturbo dissociativo è la Dissociative Experiences Scale (DES), di Carlson e Putnam, un questionario composto da 28 domande nelle quali si chiede alla persona di indicare quanto spesso si trova a vivere una serie di esperienze, da 0% (mai) a 100% (sempre). Le 28 domande si ripartiscono su tre aree: l’amnesia dissociativa (ad es., “Alcune persone si trovano in un posto, senza avere idea di come ci siano arrivate”), il funzionamento dissociativo (ad es. “alcune persone fanno l’esperienza di guidare la macchina o di viaggiare in macchina, autobus o metropolitana e improvvisamente di rendersi conto di non ricordare ciò che è successo durante tutto o parte del viaggio”) e la depersonalizzazione/derealizzazione. Riguardo quest’ultima sub-scala, le domande che la compongono sono:

Alcune persone a volte si sentono come se si trovassero al di fuori del proprio corpo o come se si osservassero dall’esterno mentre fanno qualcosa, e in effetti vedono se stessi come se stessero guardando un’altra persona.
Ad alcune persone capita di guardarsi allo specchio e di non riconoscersi.
Alcune persone talvolta hanno la sensazione che gli altri individui, gli oggetti e il mondo intorno a loro non siano reali.
Ad alcune persone capita di sentire che il loro corpo non sembra appartenergli.
Ad alcune persone a volte capita di essere in grado di ignorare il dolore.
Ad alcune persone talvolta capita di sentire delle voci nella propria testa, che dicono di fare delle cose o che fanno commenti sulle loro azioni.
A volte alcune persone si sentono come se stessero guardando il mondo attraverso uno strato di nebbia, per cui oggetti o individui appaiono loro lontani e sfocati.

Il punteggio si calcola sull’intera scala; il rischio che sia presente un disturbo dissociativo si pone quando i punteggi medi delle 28 risposte superano il 30%. Al contempo per uno scopo clinico, è possibile calcolare il punteggio medio all’interno di ciascuna delle tre sub-scale.

Nella mia pratica di psicoterapeuta, ogni questionario clinico che propongo ai miei clienti è una occasione per poterci confrontare su determinate tematiche, chiarendo insieme il senso soggettivo delle risposte date. Non considero mai il punteggio dei questionari come un indicatore determinante, ma piuttosto come un mediatore che ci permette di dialogare ampliando il campo della condivisione, e questo vale anche per la somministrazione della scala DES. È curioso come a volte le persone, che nel colloquio provano vergogna per certi loro stati interni, quando li trovano scritti nel questionario trovano una sorta di legittimazione al poterne parlare, processo che io ulteriormente supporto esplicitando il fatto che a chiunque può capitare di provare questo o quello stato, e che sono interessata a comprendere il modo specifico con cui la persona lo vive e vi attribuisce un senso soggettivo. In tale maniera mi è capitato ad esempio di appurare come l’esperienza di sentirsi fuori dal proprio corpo in alcuni casi era legata più ad un vissuto di profonda solitudine (la mancanza di un altro che condivida l’esperienza soggettiva, rende meno significativa l’esperienza stessa), che ad una forma vera e propria di dissociazione. 

DEPERSONALIZZAZIONE CRONICA E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA

Nel libro “Il corpo accusa il colpo” Bessel van der Kolk descrive gli effetti neurobiologici delle esperienze traumatiche, indicando come nelle persone con disturbo post-traumatico (PTSD) complesso si sviluppino pattern di connessioni e attivazioni neuronali anomale, in particolare per quanto riguarda le aree cerebrali deputate a darci il senso di noi stessi, del nostro corpo e del nostro essere soggetti viventi. Egli cita unno studio del 2004 di Ruth Lanius che evidenziava, nelle persone con PTSD da trauma dello sviluppo precoce e grave una ridotta attivazione della corteccia prefrontale mediale (deputata a funzioni di monitoraggio dell’attività mentale), dell’insula (una sorta di ricetrasmittente che riceve i messaggi dai nostri visceri interni – ad es. il senso di acidità nello stomaco – per mandarli ai centri “emotivi”), dei lobi parietali (che integrano le informazioni sensoriali) e del cingolato anteriore (che coordina pensiero ed emozioni). 

L’ipotesi esplicativa è che le persone imparino a “spegnere” le aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni del terrore, per non sentirlo. Il problema è che quelle stesse aree cerebrali si occupano anche di registrare l’intera gamma delle emozioni e sensazioni che ci fanno sentire di essere vivi e presenti a noi stessi.  In altre parole, «nel tentativo di annullare le sensazioni terrificanti, i pazienti traumatizzati mortificano la capacità di sentirsi pienamentevivi». Abuso emotivo cronico e trascuratezza, il “non essere visti”, non essere riconosciuti, non avere a chi rivolgersi per sentirsi al sicuro, possono lasciare un senso di disconnessione dal proprio corpo, che impedisce alle persone di sentire intere aree del corpo o di riconoscere adeguatamente gli oggetti con cui entrano in contatto. Queste persone, perdendo il contatto col loro Sé corporeo, stentano a sentirsi pienamente vive. Alcuni nel sentirsi “morti dentro”, ricorrono a comportamenti apparentemente distruttivi, come ferirsi la pelle o svolgere attività sessuale compulsiva, al fine di sentirsi più consistenti e vivi. Spesso si vergognano di tali comportamenti ma ne sono dipendenti, perché diventano l’unico modo a disposizione per sentirsi meglio, per uscire dal torpore della perdita del proprio senso di Sé. 

IL RUOLO DELLA SINTONIZZAZIONE PRECOCE GENITORE-BAMBINO NELLO SVILUPPO DELL’INTEGRAZIONE MENTE/CORPO

Per quanto forme croniche dei disturbi dissociativi siano notoriamente associate alla mancata elaborazione di esperienze traumatiche, non tutto ciò che riguarda la depersonalizzazione ha a che vedere con episodi traumatici in senso stretto. La letteratura sulla psicologi infantile e la prospettiva intersoggettiva suggeriscono che, alla base di un sano sviluppo del senso di Sé e dell’integrazione mente/corpo, vi sia la qualità delle cure ricevute fin dai primi mesi di vita. 

Lo psicanalista e pediatra Donald Winnicott coniò la felice espressione di “senso di dimorare all’interno del proprio corpo”, per intendere lo sviluppo di un senso di armoniosa confidenza col sé corporeo, dove la psiche viene percepita come profondamente radicata nel corpo, ed il confine corporeo svolge anche una funzione di confine soggettivo fra sé e il mondo esterno. Nessuno di noi nasce con questo tipo di consapevolezza mentale “incarnata”, ma la si sviluppa attraverso il modo con cui il proprio corpo viene gestito dalle figure più significative. 

La relazione fra adulto e bambino si sviluppa anzitutto come contatto fisico. Il neonato non può “capire” i pensieri dell’adulto, ma “sente” se viene preso in braccio in modo caldo e avvolgente, fermo, rassicurante, oppure se le braccia di mamma e papà sono rigide e tese, sente la qualità degli strofinamenti pelle-pelle che avvengono nel cambio del pannolino, nell’abbraccio, nelle carezze, nell’allattamento, e da questo comprende ad un livello implicito, non-verbale, se chi si prende cura di lui lo fa con partecipazione emotiva o con distacco, se il proprio corpo di neonato è qualcosa che genera negli altri esperienze di piacevolezza oppure di paura e disgusto. Quando un neonato è in preda a sensazioni emotivamente disturbanti, il modo migliore per aiutarlo a calmarsi e ritrovare il suo equilibrio è di cullarlo nella maniera più adatta a quel particolare stato di agitazione che prova. 

La maggior parte dei genitori sa che non esiste un unico modo giusto per farlo: lo stesso bambino può avere bisogni di contatto fisico diversi in diversi momenti. Momento per momento, gli adulti devono essere in grado di sintonizzarsi sulle sensazioni e l’attività motoria del loro bambino

A volte i neonati hanno bisogno di essere tenuti saldamente fra le braccia per recuperare un senso di sicurezza, sentendo che non corrono il rischio di cadere e andare in pezzi, ma anzi, che qualcuno protettivo e amorevole li “tiene insieme” e, coccolando in modo dolce, li aiuta a calmarsi.

Altre volte il bisogno è invece di ricevere una stimolazione eccitante, che faccia aumentare la loro attenzione e l’attività generale del bambino (‘arousal’), come capita quando si gioca o si balla insieme.

Un’adeguata sintonizzazione senso-motoria da un lato comunica al piccolo che i suoi vissuti sono stati ben compresi, dall’altro che è possibile fare qualcosa di concreto per aiutarlo a raggiungere lo scopo di cui ha bisogno (ad es. rilassarsi, coinvolgersi nell’esplorazione con senso di curiosità, socializzare, mangiare, etc.). Queste esperienze sono i mattoni fondamentali per costruire la fiducia nella possibilità di essere capiti e di essere in grado di affrontare efficacemente gli stati psico-fisici disturbanti (inizialmente grazie ad un aiuto esterno, più avanti, man mano che le competenze del piccolo maturano, potrà farlo da solo, “autoregolando” i suoi stati interni). Tutto questo contribuisce a sua volta a consolidare la confidenza dei bambini coi loro stati somatici e l’integrazione degli stessi con l’esperienza psicologica soggettiva.

PROBLEMI DI SINTONIZZAZIONE

A volte la sintonizzazione senso-motoria manca del tutto o è difettosa. Ad esempio il genitore si sintonizza in modo discontinuo, cosicché il bambino rimane sempre in allerta perché non può sapere quando i suoi richiami saranno efficaci oppure no. Altro esempio è l’adulto che si prende cura di lui solo ad un livello superficiale, senza partecipazione emotiva; in questi casi il bambino sente che per l’adulto prendersi stare con lui è solo un dovere ma non un piacere.

A volte le interazioni adulto-bambino sono delle vere e proprie “intrusioni” che non solo non danno sollievo, ma addirittura acuiscono lo stato di disagio del piccolo. Un esempio è l’adulto che, preso dall’ansia di essere notato dal suo bambino, continua a solleticarlo, a impedirgli di distogliere lo sguardo, di riposarsi, gli parla sempre con voce stridula e agitata, lo scrolla in modo convulso, aumentando l’agitazione e il pianto del bambino secondo escalation esasperanti. Se questo genere di contatti intrusivi si ripropone continuamente, genera nel bambino la sensazione che nulla si può fare per trovare un po’ di calma, se non smettere di prestare ascolto alle sensazioni sgradevoli. 

Difetti di sintonizzazione possono compromettere la formazione del senso di “dimora interna”, che si esprimerà su un continuum di vari livelli di disconnessione mente-corpo. Stati estremi di disconnessione mente-corpo si realizzano quando i bambini sono stati esposti in epoca molto precoce a gravi difficoltà di sintonizzazione, alla presenza di forme di contatto marcatamente intrusive, o a esperienze traumatiche con rischio di morte o di minaccia alla sopravvivenza del Sé (ad esempio, assistere a scene di violenza familiare o subire in prima persona abusi fisici, sessuali o psicologici, come gravi minacce). In tali circostanze i bambini non solo si distanziano dai loro vissuti troppo intensi e non-tollerabili (la dissociazione traumatica) ma, non potendo mai fare l’esperienza di qualcuno che capisca il loro stato interno, faticano a capirlo a loro volta, col risultato che il famoso “senso di dimora interna” non si sviluppa del tutto. Da adulti possono incorrere in gravi stati di spersonalizzazione e mancata integrazione mente-corpo, come i cosiddetti “viaggi extracorporei”.

Stati intermedi di disconnessione mente-corpo consistono nella sensazione che la mente aleggi fuori dal corpo, che la mente sia solo nella testa e come staccata dal resto del corpo (che spesso viene vissuto come qualcosa di ripugnante), o in una identificazione con un punto di vista esterno e critico, per cui il sé corporeo viene vissuto come fonte di vergogna o paura e diviene oggetto di controlli minuziosi sulla sua adeguatezza (estetica o di salute). Queste esperienze possono derivare, oltre che da abusi sessuali infantili, anche da conflitti sulla manifestazione dei propri desideri corporei, come il desiderio di un contatto fisico tenero. A volte i genitori confondo il bisogno di contatto sensuale (es. la piacevolezza di un abbraccio o di una voce dolce) con quello sessuale, mandando messaggi di disapprovazione anche per espressioni di ricerca di contatto del tutto lecite. Il bambino sarà poi confuso sull’adeguatezza dei suoi bisogni e potrebbe sviluppare un carattere inibito. Infine, può capitare che il bambino impari che, per mantenere legami sicuri con le sue figure di riferimento, debba adeguarsi ai parametri esterni, abbandonando la propria esperienza non rispecchiata e sostituendola con una prospettiva esterna; questo impedisce di sentirsi autenticamente immersi nella propria esperienza soggettiva, quindi la soggettività diventa qualcosa di alieno e che confonde… una premessa centrale in alcune forme di depersonalizzazione.

SINTONIZZAZIONE E PSICOTERAPIA

Per queste ragioni, è oltremodo importante nella psicoterapia esplorare le esperienze, verbali e non-verbali, che connotano le modalità di interazione fra il sé e gli altri. Una domanda che trovo molto utile fare quando le persone mi parlano delle loro difficoltà a sentirsi a proprio agio col loro corpo e delle varie forme di depersonalizzazione, è: “se pensa ai suoi primi mesi di vita, come immagina che sua madre/suo padre/sua nonna…. (la figura di accudimento principale) la teneva in braccio e si prendeva cura di lei?”. In un primo momento le persone rimangono spiazzate commentando, a ragione, che non se lo possono ricordare.

Allora io ribadisco che ciò che ci interessa non è ricostruire una verità oggettiva, ma come funziona l’esperienza soggettiva attuale; quindi, suggerisco di limitarsi ad immaginare: anche se non ci hanno mai pensato fino a quel momento, ora che tipo di scene immaginano? Solitamente emergono moltissimi elementi degni di nota, che ci consentono di proseguire l’avventura esplorativa nei più profondi meandri dell’esperienza senso-motoria, che nasce da, e al contempo da forma a, il senso del sé emotivo e corporeo. 

Ricostruire il filo conduttore dell’esperienza soggettiva e delle sue vicissitudini nelle trame relazionali, pregresse e attuali, è una impalcatura fondamentale per aiutare le persone a ritrovare, talvolta a costruire, il loro senso di autenticità e presenza consapevole nel qui-ed-ora.

Ciò che al principio sembrava “una cosa da matti”, comincia ad assumere una sua coerenza, un suo senso adattativo. Può essere visto come qualcosa di meno alieno e più comprensibile… una comprensione non solo razionale, ma anche emotiva, una compassione amorevole verso quelle esperienze interne inizialmente tanto detestate. L’abbraccio sincero che era mancato, può essere dato da se stessi a se stessi, attraverso questa progressiva capacità di riconoscersi e di avere auto-compassione. 

Naturalmente, un secondo aspetto centrale in tale processo è dato dalle interazioni reali e non-verbali che accadono nella stanza di analisi. Cosa accade al Sé di un paziente, quando sente il suo psicoterapeuta parlargli con voce calma, accogliente e rassicurante, nei momenti in cui si sente più agitato? O usare battute di spirito “al momento giusto”, interagendo con vitalità? O guardarlo negli occhi con uno sguardo presente e accettante, uno sguardo pieno di comprensione e scevro da giudizi, quando il paziente parla, forse per la prima volta, di esperienze che lo riempiono di vergogna?

La sintonizzazione emotiva senso-motoria che avviene nelle interazioni reali fra pazienti e terapeuti è il terreno basilare dove porre le fondamenta di una nuova casa, o impiantare le impalcature per i lavori di restauro… affinché un giorno il cliente possa cominciare a sentirsi bene nella sua “dimora interna”.

BIBLIOGRAFIA:

American Psychiatric Association, Ed. it. Massimo Biondi (a cura di), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano: Raffaello Cortina, 2014

Gabbard, G.O. (2007). Psichiatria Psicodinamica (quarta ed.). Milano: Raffaello Cortina.

World Health Organization. International statistical classification of disease and health related problems. ICD-10. Ginevra 2007

Storolow, R.D., & Atwood, G.E. (1995). I contesti dell’essere. Torino: Bollati Boringhieri

Van der Kolk, B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Milano: Raffaello Cortina

Segnaliamo il nuovo articolo scritto recentemente dalla dott.ssa Pozzi sullo stesso tema a quattro anni di distanza da questo articolo. leggi qui