Eccoci anche noi ad affrontare la questione coronavirus, sebbene non proprio in primissima battuta. Fin dai primi giorni dell’emergenza abbiamo sentito di avere molti spunti di riflessione da condividere: l’abbiamo fatto privatamente con i pazienti (meglio, le persone) con cui lavoravamo, meditando articoli divulgativi o video messaggi da pubblicare sui social network, valutando l’opportunità di proporre dei servizi ad hoc in questo periodo… Ma poi tutto è rimasto in sospeso. Perché?

Abbiamo dovuto fare ammenda con una personale ambivalenza che, probabilmente, intercetta parti diverse della nostra esperienza emotiva.

Non è facile fare una sintesi organizzata dei motivi che ci spingono, da professionisti ma anche da privati cittadini, ad approcciare il “fenomeno coronavirus” in un modo o nell’altro. Proverò a farlo partendo dallo stile dialogico che più mi è affine, quello dell’attenzione liberamente fluttuante che, cercando di intercettare le curve di “crescendo-e-decrescendo” emotivi nella stanza di analisi, consente nel corso di una seduta di esplorare l’esperienza come se stessimo rovesciando lo scatolone dei giocattoli, per vedere più da vicino quali sono e come ordinarli in maniera più chiara.

Primo: insicurezza su come affrontare la questione.

La pandemia è un evento nuovo per la maggior parte di noi, è normale per chiunque sentirsi “impreparati”. Abbiamo avuto bisogno di un tempo per capire che cosa concretamente avevamo davanti, oltre che per lasciare sedimentare le ondate emotive in arrivo.

Come psicologi formati al trattamento dei traumi e al lavoro in emergenza, reputiamo di possedere strumenti conoscitivi e pratici adatti per questa circostanza; tuttavia come affrontare questa specifica situazione non era affatto scontato. Banalmente, abbiamo dovuto adottare degli accorgimenti nuovi riguardanti il setting terapeutico, il cui effetto sul modo di condurre le psicoterapie non era definibile a priori.

Cosa significa fare psicanalisi in videochiamata? L’avevamo già sperimentato più volte in passato, ma solo in momenti particolari dei percorsi clinici e con persone selezionate. Adesso tutti dobbiamo muoverci in questo modo.

Come si fa a rimanere uniti, sentirsi emotivamente vicini, nella distanza fisica? Abbiamo scoperto che è possibile (la relazionalità umana davvero non ha confini), ma è stato necessario passarci attraverso e osservare come dei piccoli scienziati, prima di sentirci sicuri della nostra modalità di lavorare.

Siamo di fronte ad una grande crisi, individuale, familiare, comunitaria, sanitaria, psicologica, economica, sociale… Bisogna attivare il processo della resilienza, cioè della capacità umana di affrontare gli stress e reagire alle perturbazioni con senso di forza e crescita. Per farlo, occorre tempo.

Un tempo che non è il vuoto da riempire con serie TV o sperimentazioni culinarie, ma è già un pieno, densissimo, di emozioni, pensieri, movimenti interni, che necessitano di decantare e fermentare in modo naturale, secondo un ritmo non prevedibile.

Secondo: l’esperienza si costruisce nella relazione… anche a distanza

Nulla di nuovo sotto il sole… come psicologi formati alla psicanalisi relazionale-intersoggettiva, ben sappiamo che la mente è dialogica, il pensiero si forma nel senso che viene co-creato dalla condivisione di più menti in relazione fra loro.

Iniziamente la solitudine dello smart-working ci stava facendo cadere nel tranello di illuderci che avremmo potuto sciorinare “prodotti” (articoli, servizi….) partendo dagli a-priori dei nostri pensieri autistici. Quando abbiamo cominciato a confrontarci fra colleghi sul senso che ognuno di noi stava dando a questo o quel servizio, a questo o quell’articolo, allora abbiamo capito che c’era ancora molto da rivedere. Quante volte ci si è trovati su Skype pronti a confezionare video-messaggi,  per poi mandare all’aria gli accordi presi e lasciarci cullare da chiacchierate a ruota libera, condivisione dei rispettivi vissuti e impressioni, cliniche e non, raccolte mano a mano che le settimane di quarantena procedevano! Le idee migliori sono venute proprio in quei momenti. Quando, dopo 15-20 minuti di apparente divagazione, sentivamo affiorare un filo conduttore inaspettato, un insight, una nuova prospettiva, che ci aiutava a ri-dare un senso più compiuto al lavoro da fare. 

La nostra proposta

Abbiamo deciso di non formulare “vademecum” strettamente comportamentali, in quanto ce ne sono già molti disponibili (consigliamo di consultare indicazioni fornite dall’associazione EMDR Italia e dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, che riportiamo nella pagina FB).

Proporremo una serie di piccoli spunti di riflessione, attraverso video e/o articoli, che ci aiutino a capire le tante facce della cosiddetta “resilienza”.

Questa è forse l’unica parola dotata di senso, in una circostanza come quella attuale. Una parola senz’altro inflazionata, ma comunque ampia, dal significato complesso e dinamico.

Fin da subito abbiamo pensato alla “crisi” del coronavirus come ad un evento capace di attivare, da un lato, il potenziale per un trauma (sia individuale che collettivo), dall’altro, il potenziale per una crescita post-traumatica (anch’essa, individuale e collettiva). I processi psicologici che spingono verso un esito o l’altro sono molteplici. A volte gli esiti stessi sono sovrapposti, crescita e ferita si confondono come il gioco di figura/sfondo nelle figure reversibili.

La psicologia dei traumi insegna che è fondamentale guardare non tanto all’esito in sé, quanto al processo con cui la mente gestisce il fardello (emotivo, cognitivo, fisico, sociale….) dell’evento perturbatore. Gli interventi EMDR e in emergenza, nella fase cosiddetta peri-traumatica, mirano proprio a mantenere fluido il processo di elaborazione, fare in modo che il dolore non si cristallizzi in schemi rigidi, ma rimanga aperto alle integrazioni e contaminazioni della vita nuova che avanza.

Ci piacerebbe far “girare” spunti di riflessione, affinché il processo elaborativo di ciascuno possa mantenersi vitale come quando, nelle serate invernali, si va a ravvivare di tanto in tanto il fuoco del camino.

A tal fine, proporremo una serie di mini-interventi sotto forma di video o articoli, il cui filo conduttore sarà il processo di resilienza.

Crisi, trauma e crescita: una sintesi

Quello che descriveremo in quest’ultimo paragrafo è una sorta di mappa-concettuale che orienterà gli approfondimenti via via proposti.

Sappiamo che la pandemia ed i tentativi di arginarla, comportando in drastico cambiamento nei modi di vivere e nella percezione di noi stessi e del mondo, pone tutti in una condizione di forte stress, a cui non siamo abituati come società, da tempo orientata all’illusione di un controllo onnipotente. L’attuale situazione ci riporta a una dimensione di vulnerabilità e incertezza che è insita nell’essere umano, ma che dobbiamo imparare (o re-imparare) a gestire.

Se non possiamo evitare il dolore, possiamo affrontarlo, dandogli un senso personale.

Crisi etimologicamente rimanda alla necessità di prendere delle decisioni, di imprimere dei cambiamenti nella propria vita, per poter andare avanti. Tutto il ciclo di vita è costellato da eventi critici che agiscono sulla psiche come bivi nel sentiero da percorrere.

La crisi può sfociare in trauma quando si sente di non avere le risorse per poter affrontare la portata destabilizzatrice, con conseguente lacerazione del senso di coerenza, impossibilità di dare un senso, sensazione di un vuoto fra il “prima” e il “dopo”, vissuti di impotenza e altre emozioni travolgenti. Entrare nella nube caotica del trauma è un passaggio quasi inevitabile di fronte alle grandi crisi.

La bella notizia è che la maggior parte di noi è resiliente, cioè è in grado di entrarci dentro, lasciarsi destabilizzare, per poi recuperare una capacità di autodeterminazione che consente di affrontare la sfida e reimpostare la propria vita in modi nuovi. Non finiremo mai di ripetere che resilienza non è il ritorno allo status quo, ma la capacità di cambiare insieme agli eventi, mantenendo il senso vitalità, speranza e di fluire del tempo in avanti.

Per alcune persone si tratta di acquisire schemi di sé e degli altri nuovi, un processo che si accompagna spesso alla percezione di una crescita psicologica, la cosiddetta crescita post-traumatica, riguardante per lo più tre ambiti:

  • la percezione di sé (es. sentirsi più efficaci, assertivi…)
  • le relazioni con gli altri (es. più vicinanza e autenticità nelle relazioni significative, disimpegno dalle relazioni non rilevanti…)
  • la filosofia di vita (nuove priorità o valori)

Come fare affinché la crisi diventi occasione di crescita – e non di trauma?

Qui entrano in gioco processi su almeno tre livelli: cognitivi, emotivi e relazionali.

I processi cognitivi riguardano la cosiddetta elaborazione delle informazioni. Come premesso, serve darsi un tempo (e uno spazio mentale) per sedimentare, accogliere, trasformare i pensieri in divenire. Talvolta ci si trova immersi in forme ripetitive di pensiero, le cosiddette “ruminazioni”. Alcune hanno un carattere intrusivo e involontario e possono essere viste come derivati del trauma già avvenuto. Altre forme di ruminazione, più intenzionali, si riferiscono al tentativo di ritrovare un senso soggettivo, e in questo facilitano il processo di crescita.

Fra i processi emotivi annoveriamo il ricorso ai cosiddetti meccanismi di difesa, così come ai processi di regolazione emotiva, dove un ruolo chiave è giocato dall’espansione della nostra finestra di tolleranza, ossia dal gradiente con cui riusciamo a stare a contatto con gli affetti, positivi e negativi, senza dover per forza reagire o distaccarci.

Infine, la resilienza a livello familiare riguarda le credenze condivise all’interno di un certo nucleo familiare (ad es. l’idea che le crisi si affrontano tutti insieme, oppure come “eroi solitari”), le capacità organizzative e i modi di comunicare.

Il primo video che pubblichiamo è di Andrea Ferella, il quale si interroga su alcuni dei processi emotivi in gioco, da un punto di vista psicanalitico. Buone riflessioni!

Dott. Andrea Ferella psicoterapeuta