Perché così tante persone riportano di aver paura del giudizio?
Nel 2023, in quella che si dice essere la società del godimento immediato, dell’esibizione, della moltiplicazione dei ruoli e delle possibilità di interazione dentro e fuori gli spazi virtuali, la sofferenza ce la si potrebbe immaginare come una forma di alienazione, come un senso di vuoto dovuto al moltiplicarsi delle alternative e come l’incapacità di governarsi, di trattenersi. Eppure le sedute di psicoterapia abbondano di sentimenti di indegnità, di rabbia auto-diretta, di ritiro dal mondo, di inibizione della propria vitalità, in una sorta di ritorno sulle scene del senso di colpa.
Come mai?
Per provare a dare qualche risposta, vorrei anzitutto risalire all’etimologia della parola.
Trattandosi di giudizio, la parola a cui ci dobbiamo riferire è Giudice, il cui progenitore è il latino Judex. Scomponendo il termine “Judex” nelle sue parti costituenti, ci ritroviamo con “decs” (cioè dicere…dire) e “ius”, che è una parola interessante, perché, proprio come “diritto” in italiano, rimanda sia al Diritto, cioè un codice di leggi, che alla possibilità di agire, al diritto, per l’appunto, di fare qualcosa in modo giusto, legittimo.
Quindi un giudice, letteralmente, è “chi dice [qualcosa] riguardo al diritto”.
Ho il diritto o lo chiedo? Il ruolo del “giudice interiore”.
Abbiamo ottenuto una prima informazione su cosa potrebbe essere un giudice. Ovviamente, qui si tratta non tanto di un giudice reale, in carne ed ossa, ma di un giudice interiore (questo vale anche per chi ha l’impressione di temere il giudizio degli altri, sul lavoro, in amore o in famiglia, perché negli altri rivediamo il nostro giudice).
Il nostro giudice interiore potrebbe essere dunque quella parte di noi che ci dice se abbiamo il diritto di fare ciò che vorremmo fare. O se avevamo diritto di fare ciò che abbiamo fatto.
Ma perché dovremmo mettere le nostre scelte alla prova? E soprattutto, si è mai visto un giudice interiore che conceda facilmente o anche difficilmente, ma una volta per tutte, questo diritto?
Non che io sappia. Uno dei problemi principali del giudice interiore, un problema che lo rende spaventoso, è che il suo processo non sembra mai finito. L’altro problema, strettamente collegato, è che il giudizio è spesso o quasi sempre accompagnato dalla spietatezza (della parte-giudice) e dalla paura e dall’impotenza (della parte-giudicata). Questi affetti negativi formano il nesso tra il giudizio di sé è la depressione: la depressione, ovvero un vissuto di scarso valore e di perdita di vitalità, accompagnati da rabbia auto-diretta, può derivare proprio dal fatto che, di fronte al proprio giudice, ci si ritrova sempre senza il diritto che si richiede.
Del resto, chiedere un diritto come si chiede un permesso significa già di per sé rinunciare. Un diritto lo si ha o non lo si ha, non lo si può chiedere.
In un celebre racconto di Franz Kafka, un contadino si trova “alle porte della Legge”, ovvero davanti a un portone aperto che sembra dare accesso a un luogo desiderato. Nei pressi del portone vi è un guardiano dall’apparenza severa e inflessibile. Il contadino passa anni e anni a cercare inutilmente di convincerlo o di corromperlo. Quando è giunto ormai al termine dei suoi giorni, gli chiede con un filo di voce perché nessun altro a parte lui abbia mai cercato in tutto quel tempo di passare attraverso il portone.
Il guardiano spiega:
“Nessun altro poteva entrare da questa porta. A te solo era riservato l’ingresso. Adesso vado e la chiudo”.
Un finale beffardo e paradossale!
A cosa serve il mio giudice interiore? Due diverse concezioni
Dobbiamo provare ad uscire dal paradosso del diritto. Ma come? Abbiamo capito che non ha senso chiedere l’approvazione dei nostri desideri, che il nostro “guardiano” non si convince e nemmeno si corrompe.
Eppure, queste parti esistono e in certi casi si presentano come molto potenti. Da cosa derivano? E che funzione potrebbero avere?
La psicoanalisi ha eretto cattedrali sul tema del giudizio e sulla sua connessione con la rabbia e con il senso di colpa. Senza dilungarsi, val la pena sottolineare che il cosiddetto “Super-Io” (una parte della psiche con un ruolo molto simile a quello di un guardiano…) sarebbe, in sintesi, una rappresentazione interna dei genitori.
Nelle concezioni classiche, a partire da quella originale di Freud, la funzione primaria di questa rappresentazione sarebbe governare i nostri istinti egoistici, dotandoci di un senso morale e garantendo un legame con la nostra cultura di appartenenza. Un buon giudice interno eserciterebbe un controllo non punitivo sugli istinti e servirebbe a fare di noi individui eticamente sensibili e cittadini rispettosi.
Tuttavia, queste concezioni fissano un rapporto conflittuale tra noi e gli altri. Lo danno per assunto. Anche per questo, teorie più recenti, come ad esempio quelle di approccio intersoggettivo, hanno spostato il focus sul mantenimento del legame con l’altro-da-sé. Centrale non è più il conflitto tra l’istinto e la regola, ma la dialettica tra la differenziazione (cioè il nostro svilupparci come individui unici e autentici) e la preservazione del legame con le figure di “attaccamento” (cioè la relazione fondamentale tra noi e chi si è occupato di noi quando ancora non eravamo autonomi).
In altre parole, nelle concezioni più moderne quello che conta non è tanto avere il controllo degli istinti, quanto la sicurezza di potersi esprimere senza perdere l’amore per gli altri e degli altri.
In questo senso, fare qualcosa di “giusto” non significherebbe agire “secondo il diritto” o “senza abbandonarsi al proprio egoismo”, quanto piuttosto “senza perdere il rapporto con gli altri” e, in un certo senso, “insieme agli altri”.
Uniformarsi per sopravvivere
Ebbene, se il severo processo di richiesta di approvazione di Kafka e di Freud si è trasformato in un modo per mantenere il rapporto con gli altri più importanti, le cose dovrebbero andare meglio, no?
In verità molto dipende da che ciò che ci siamo abituati a fare per mantenere quei rapporti… Più precisamente, da che cosa abbiamo sentito di dover fare per sentirci visti, amati e protetti. Che cosa è stato necessario perché i nostri genitori (e in seconda battuta i compagni di scuola a cui eravamo affezionati, i professori, gli allenatori e via dicendo…) venissero percepiti “lì con noi”, cioè in connessione, in sintonia e in dialogo?
Ebbene, la dinamica di cui si tratta in questo articolo deriva soprattutto da situazioni in cui tale connessione con gli altri era possibile (quando la connessione è mancata del tutto o è stata abusante, i sintomi e le disfunzioni sono solitamente più gravi di quelle trattate qui), ma a costo di estrema attenzione e cospicue rinunce. Gli altri stavano cioè sulle loro posizioni e noi imparavamo ad adeguarci per ottenere le risposte desiderate.
“Posso stare bene con te solo se mi adeguo alle tue condizioni”. Anche formulata così, basterebbe per far riflettere. Purtroppo, però, “adeguarsi alle condizioni altrui” è un procedimento adulto, che presuppone che ci sia già un soggetto formato che si adegua o che è costretto ad adeguarsi.
I bambini sono invece soggetti in formazione e quindi il procedimento è piuttosto quello di uniformarsi.
A tal proposito, Atwood e Stolorow scrivono:
“Quando l’organizzazione psicologica del genitore non riesce ad adattarsi […] ai bisogni evolutivi del bambino, la struttura psicologicamente più malleabile e vulnerabile del bambino si adatterà a ciò che ha a disposizione…a qualsiasi costo per l’esperienza autentica del sé”.
Il bambino che si uniforma reprime, nasconde o modifica i suoi primi momenti di autentica espressione alle necessità del momento, cioè si preoccupa che la sua vitalità spontanea “guasti” il meno possibile le relazioni da cui dipende.
Questo abitua alla non-naturalezza. Da adulti implica dubbi sul proprio desiderio e perfino sulla propria autenticità. Ci si sente a disagio con ciò che si vuole o, in alcuni casi, con tutta la parte sensuale e corporea di sé. Infatti, oltre alla citata depressione, si possono sviluppare anche sintomi ipocondriaci, disturbi nella sfera sessuale, somatizzazioni e/o sintomi ancora più chiari di sconnessione dal corpo.
In generale, si alternano momenti di spontaneità a momenti di ripensamento angoscioso, come se si cercasse a posteriori la legittimità delle proprie azioni e a volte anche delle proprie emozioni e delle proprie percezioni, con la sensazione netta che la propria autonomia sia pericolosa. In questo senso più che: “ne ho il diritto?”, la domanda diventa: “ci sei ancora o ti ho perso per sempre?”.
Altre persone con strutture interne simili smettono di agire, diventano passive e lasciano decidere gli altri. Altri ancora cercano scappatoie in una fantasticata (e desolante) autosufficienza emotiva, che somiglia alla libertà, ma in realtà implica che l’altro è percepito talmente lontano, talmente “offeso” o infastidito, da non poterlo più raggiungere.
Torno per un breve passaggio nell’alveo delle teorie della psicoanalisi intersoggettiva citando Bernard Brandchaft, che in un contributo sul concetto di “accomodamento patologico”, scrive:
“[…] Il bambino abbandona i suoi sentimenti interiori come fonte legittima di informazione (riguardo a sé stesso, ndr) e i suoi sentimenti trasmettono informazioni relative allo stato mentale del caregiver (del genitore, ndr) […] L’individuo non riesce a sentire di appartenere veramente a sé stesso”.
Si può guarire?
Una risposta semplice: sì.
Bisogna però specificare che la rabbia, lo smarrimento e l’angoscia possono essere purtroppo i primi sentimenti che si incontrano quando si ricerca un maggiore contatto con il proprio sé, perché in questo caso, quando ci si inizia ad ascoltare di più, si sentono anzitutto i vissuti di solitudine e di pericolo che a lungo sono stati evitati.
Ciò significa, ed è anche il senso di questo articolo, che la “paura del giudizio” è in realtà “abitudine al giudizio” e anzi, che il giudizio serve a rassicurare e a coprire con le sue procedure infinite sentimenti negativi molto forti.
Nonostante questo, è possibile riprendere il processo di differenziazione e di soggettivazione perché il presente non è più vincolato dalle stesse drammatiche limitazioni infantili. Lo si fa, se necessario, anche spaventandosi, rallentando e ripetendo le tappe più volte. In questo processo, la terapia può essere usata come uno spazio di sintonizzazione non-invalidante, ovvero in cui lo psicoterapeuta è presente e interattivo, ma non ripete la sovrapposizione confusiva dei propri sentimenti su quelli del paziente.
Potendo mantenere un legame significativo senza doversi per forza modellare sull’altro, si diventa più consapevoli degli automatismi che ci portano a nasconderci per sopravvivere.
Nel qui-e-ora della terapia e della vita adulta non è più necessario farlo. Vivere non è sopravvivere e se c’è possibilità di espressione nel rispetto della differenza, l’individuo può finalmente decidere di sé, senza controllare e ricontrollare continuamente , i rischi, i costi e le conseguenze di ognuna delle sue azioni.