Vi è mai capitato di avere quella sgradevole sensazione che, qualunque traguardo raggiungiate, qualunque sforzo profondiate nella vostra vita, non sarà “mai abbastanza”? Alcune persone conducono esistenze incalzate da ritmi frenetici, rincorrendo un supposto senso del dovere, anche a discapito del proprio benessere e al di là di ogni ragionevole necessità, sia economica che morale.

Ciò spesso si traduce in una sotterranea depressione, che emerge ogni qualvolta ci si ferma, anche solo per pochi istanti. Chiaramente nessuno avrebbe voglia di sentirsi sommerso da auto-colpevolizzazioni (es. “sono un incapace”, “ecco, avrei dovuto fare meglio”…), sentimenti di angoscia e sconforto, sensazioni fisiche di dolori o di perdita totale di energia e voglia di fare, in definitiva, dal senso di annichilimento. 

Perciò, capita che molte di queste persone tendano ad associare i momenti di break al disagio, sviluppando una sorta di fobia per lo stare fermi, che produce ulteriore spinta allo strafare, con il conseguente instaurarsi di un circolo vizioso dato dall’auto-logoramento che, invece di sostenere una ricerca (sana) di riposo e maggiore equilibrio, porta ad ulteriore frenesia e sfinimento. 

Da certo punto di vista è vero che, fin tanto che si sta “attivi” e si impegna la testa col fare, ci si sente “bene”, in quanto il corpo produce cortisolo in abbondanza tale da tamponare gli stati infiammatori dovuti allo stress, il sistema nervoso autonomo rimane ben tarato sulla modalità “simpatica” (ossia, governata dai circuiti adrenergici che tengono ben “attivi” tutti i muscoli e gli organi interni).

Il problema è che, se non viene mai dato spazio al suo opposto, al non-fare, alla modalità di riposo dell’organismo, vi è il rischio che prima o poi “il corpo accusa il colpo”, per citare il titolo di un bellissimo libro dello psicotraumatologo Bessel van der Kolk. 

ozio come rimedio alla depressione

Non solo. 

Quello che vorrei proporre in questo articolo è che lo sviluppo di una adeguata capacità di stare negli spazi vuoti, nell’assenza di schemi di azione precostituiti, è necessaria come nutrimento essenziale per la crescita psicologica. Tutti fin da piccolissimi abbiamo bisogno di sperimentarci nell’ozio, di assaporare la libertà del non-dover-fare, per accorgerci di avere dentro, proprio nel profondo di noi stessi, una spinta spontanea al creare, al vedere con occhi diversi e al “sentire di volere”. 

Il pediatra e psicoanalista britannico Donald Winnicott era un fervente sostenitore di questa ipotesi, ossia che lasciare ai bambini la possibilità di esplorare se stessi e l’ambiente senza degli schemi precostituiti, con adulti presenti emotivamente ma cauti nell’intromettersi nel gioco spontaneo del bambino, costituisca uno “spazio transizionale” importantissimo proprio per consentire ai piccoli di sentir nascere dall’interno la motivazione che li guida nel loro rapporto col corpo e con l’ambiente esterno, uno spazio dove sviluppare la creatività ed un senso di “dimorare internamente” il proprio corpo.

imparare a stare negli spazi vuoti

SOSPESI IN UN TIRO ALLA FUNE

La depressione non dipende solo da esperienze infantili particolarmente avverse, come i traumi relazionali che minano l’autostima, ma anche, a volte, dall’aver interiorizzato un ingannevole rapporto con lo stare fermi. Quando le modalità di accudimento dei bambini non rispettano il bisogno di tempi liberi si crea un difettoso rapporto con il vuoto, che viene vissuto come qualcosa di angosciante da riempire (saturare) a ogni costo. 

Oggigiorno forse ancora più di qualche generazione fa, i bambini rischiano di essere sovra-stimolati fra attività sportive, educative, organizzazione programmata di ogni momento del tempo libero e delle vacanze, approcci alla genitorialità basati su teorie pedagogiche astratte lette in giro…

Se tale stile di vita si protrae per anni, le persone rischiano di non riuscire a vivere con serenità l’assenza di schemi preformati. Non è un caso, infatti, che molte forme di disagio psicologico esplodano proprio nella fase del giovane-adulto, in particolare quando termina l’università e i ragazzi si ritrovano a doversi mettere in gioco, senza un contenitore strutturato che scandisce i ritmi delle loro giornate.

Se non ci si dà mai l’occasione di sentir nascere dall’interno impulsi e motivazioni, cercando sempre dall’esterno l’input per dare “senso” al proprio essere nel mondo, si produce l’implicito messaggio di disvalore: se devo sempre inseguire aspettative esterne, fare di più, etc., allora vuol dire che quello che ho dentro non merita di essere ascoltato = non ha valore”. 

depressione

In questo modo si vive stando come a un tiro alla fune, dove da un lato abbiamo l’angoscia del giudizio (es. “se non riesco a fare X, allora gli altri penseranno che sono un perdente…/ mi sento in colpa…”), dall’altro il senso di sfinimento e depauperamento delle energie vitali, la rabbia per sentirsi “in trappola” dentro schemi di vita troppo rigidi e asfittici. 

Ecco un primo elemento che ci aiuta a capire come la mancata capacità di trarre giovamento dall’ozio si connetta al disturbo depressivo.

“BULIMIA DEL FARE”

Un secondo aspetto da tenere in mente è la possibilità che la compulsione ad agire in modo frenetico, a riempirsi l’agenda di impegni e/o a non riuscire mai a dire “basta”, possa far parte di un vero e proprio insieme di strategie di difesa inconsapevoli, con due possibili scopi (talvolta co-presenti):

  • evitare di prendere contatto con vissuti traumatici, tenendo la mente sempre impegnata (“faccio per non pensare/sentire”);
  • gestire sentimenti soverchianti di vergogna e/o la paura dell’abbandono attraverso il perfezionismo (un pattern di personalità che ruota attorno ad alcune convinzioni inconsce, come: “stra/faccio per dimostrare quanto sono all’altezza; se sarò perfetto allora potrò essere degno d’amore”).

In entrambi i casi, la ricerca spasmodica di attività non si limita ad una scarsa capacità di gestire il tempo libero, ma diviene una forma di compulsione, dal carattere simile alla bulimia alimentare. Tale parallelismo con il disturbo del comportamento alimentare è solo una metafora, non vuole avere alcuna valenza clinica o diagnostica, ma ci aiuta a capire il carattere talvolta pernicioso di alcune forme di compulsione all’azione. Similmente alle abbuffate alimentari, le “abbuffate di impegni” hanno il medesimo effetto di stordire mente e corpo. 

bulimia del fare

Inoltre, spesso si alternano a tentativi estremi di espellere lo stress. Ad esempio la persona, stanca di continuare a dare/fare, fantastica di evadere completamente, rifugiandosi su un’isola tropicale lontana da tutto e tutti. Oppure si lascia languire, inerme, impossibilitata a fare qualsiasi cosa (anche la più piccola azione quotidiana può essere vissuta come una montagna da scalare). Terza opzione, piuttosto frequente, è il ricorrere a metodi altrettanto estremi o forzati per “eliminare lo stress”, come corsi intensivi di rilassamento, nell’idea, illusoria quanto foriera di ulteriore problematicità, che servano tecniche particolari e strutturate per stare meglio. 

COME USCIRNE? L’IMPORTANZA DI TOLLERARE IL CONFLITTO

Come fare a superare l’angoscia del vuoto, recuperando la potenzialità curativa ed evolutiva insita nel rapporto con esso? Un aspetto importante riguarda la capacità di tollerare sensazioni scomode, come quelle che denotano il senso di attrito, di conflitto fra impulsi e desideri discordanti, così come la possibilità di risultare a volte “deludenti”. Ampliare la finestra di tolleranza emotiva consente di notare il disagio, senza doverlo per forza eliminare immediatamente. 

In questo modo si potrà procedere a dare voce alle parti interne in gioco (i vari lati del tiro alla fune), prenderci confidenza, ri-conoscerle, cogliendo le funzioni di regolazione psicologica che svolgono, al di là degli effetti talora disfunzionali. Il passaggio successivo, fondamentale, è quello di far dialogare le varie parti (o funzioni) fra di loro, affinché l’opposizione si trasformi in una collaborazione, con una sempre maggiore capacità di negoziare i vari bisogni in gioco. 

A questo punto il campo emotivo sarà sufficientemente “ripulito” per poter “stare” con le sensazioni, fisiche ed emotive, i bisogni e i desideri, ascoltando con curiosità (invece che angoscia) anche ciò che arriva dalle parti di sé poco familiari, come quelle che emergono quando si smette di ripetere lo schema dell’azione compulsiva.

uscire dalla depressione

IDENTIKIT SOMATICO DEL BENESSERE

Riuscire a stare fermi consente di notare aspetti del benessere reale del qui-ed-ora che altrimenti ci perdiamo, rincorrendo “l’idea” di un supposto benessere che abbiamo in mente. Ad esempio, potremmo sentirci “vivi” notando una piacevole sensazione di energia, espansione, pienezza; oppure, sperimentando un senso di fluidità nei movimenti che si abbina al radicamento, un mix di flessibilità e stabilità che facilita l’interazione con l’ambiente, fisico e relazionale. Quando le nostre parti interne sono in una sufficiente armonia fra loro, possiamo notare che il respiro si fa regolare, calmo o profondo; che i muscoli sono tonici, ma non eccessivamente tesi. 

Può darsi che tutto questo porti anche ad un maggiore coinvolgimento nell’esperienza del piacere e del divertimento, ma ciò che viene sperimentato come un passo in avanti sostanziale, è che si sviluppa la capacità di avere accesso a qualsiasi emozione, mantenendo l’integrità del proprio esserci-nel-mondo. Ogni sorriso ed ogni lacrima avranno comunque un loro valore in quanto autentici.

STORIE DI VITA

Francesca arriva alla mia attenzione poco più che ventenne, a fronte di stati di ansia e demoralizzazione acuti che riferisce principalmente al contesto universitario, suo principale focus di interesse. 

Da bambina prodigio… a giovane ossessiva e depressa.

Da bambina veniva elogiata per le sue precocissime competenze linguistiche e cognitive. Il risvolto della medaglia, era una infanzia continuamente incasellata.

Ogni momento, inclusi quelli di svago, doveva essere sempre al “top”: la scuola, lo sport, le vacanze… Inoltre, le tappe dello sviluppo erano state forzate per rientrare dentro teorie “pseudo-pedagogiche” che servivano più a tamponare l’insicurezza materna, che a sostenere un autentico percorso di crescita e benessere della bambina. Da giovane-adulta si ritrova insicura, continuamente assediata da ruminazioni sulla propria presunta incapacità. 

Il percorso terapeutico.

Nella sua terapia abbiamo promosso un rapporto più sano con il malessere, vedendolo come qualcosa di normale e anche utile, invece che come una imperfezione da eliminare a ogni costo. Per arrivare a questo è stato utile rallentare i ritmi, permettersi di “giocare” con le fonti di angoscia, prendendole un po’ meno sul serio, fino a poter “stare” e “sentire” al posto di parlare o pensare. Pian piano ha potuto de-idealizzare i genitori, comprendendo empaticamente le motivazioni che stavano dietro ai loro “errori”, e rimodulare le aspettative su di Sé (potremmo dire, l’ideale dell’Io), per ritrovare un contatto più autentico con se stessa e con la famiglia. 

Sentii che era pronta per avviarsi ad una fine del percorso terapeutico quando cominciò ad approcciare i suoi obiettivi di cambiamento concedendosi di potersi sperimentare, andando per piccoli passi concretamente raggiungibili, invece di imporsi mega-obiettivi astratti e destinati a creare senso di fallimento. 

prendersi cura

Empatizzare e prendersi cura.

Con lei il percorso ha potuto avere uno slancio positivo grazie alla sua spiccata capacità di empatia, una risorsa interpersonale che riconosceva di avere verso gli altri e che ha potuto cominciare a rivolgere al proprio interno. In questo modo le parti della sua personalità che prima subivano le aggressioni del giudice interiore, hanno potuto trovare conforto nella comprensione di una parte “amica”, sensibile e accogliente, che ha saputo calibrare il proprio modo di “prendersi cura” dei vari bisogni e desideri in maniera flessibile.

Autodeterminazione

La chiusura del percorso è stata parte cruciale del percorso stesso: Francesca, che al principio pativa una forma di indecisione cronica, è stata in grado di mettere a fuoco e comunicare la sensazione di aver “raggiunto l’obiettivo”, avviandoci così al termine delle sedute. Poteva riconoscere di avere ancora degli aspetti di sé un po’ “irrisolti”, ma ha avuto la maturità per “SCEGLIERE” di portare a termine quel ciclo di colloqui, riconoscendo che non era per lei il momento adatto per affrontare il resto. 

Mi piace molto ripensare al suo percorso, perché è stato proprio come riprendere per mano quella bambina precocemente adultizzata, per farle ripercorrere le tappe evolutive rispettando i suoi ritmi spontanei, e infine, vedere che era pronta davvero per staccare la mano e camminare con le sue gambe, assumendosi la responsabilità dei propri bisogni, desideri e umane fragilità

BIBLIOGRAFIA

  • Bromberg, P. M., Lingiardi, V., & De Bei, F. (2012). L’ombra dello tsunami: la crescita della mente relazionale. Raffaello Cortina Editore.
  • Didonna, F. (2012). Manuale clinico di mindfulness. Franco Angeli Editore.
  • Fisher, J. (2017). Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma.
  • Ogden, P., & Fisher, J. (2016). Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Raffaello Cortina editore.
  • Van der Kolk, B. (2020). Il corpo accusa il colpo: Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffaello Cortina Editore.
  • Winnicott, D. (2019). Gioco e realtà: Nuova traduzione 2019. Armando editore.

Articolo scritto dalla dott.ssa Stefania Pozzi