di STEFANIA POZZI

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(Parte 3)
SOGNI E SVILUPPO DEL SÉ

Siamo arrivati alla terza ed ultima parte dell’articolo sull’attività onirica. Fino ad ora abbiamo visto i falsi miti sui sogni e le basi psicofisiologiche del sonno e dei sogni.  In questa sezione ci concentreremo sulle funzioni psicologiche dei sogni rispetto allo sviluppo ed al consolidamento del Sé.

Heinz Kohut, padre della cosiddetta Psicologia del Sé, notava come certi sogni esprimono il modo in cui il soggetto percepisce il rapporto con il proprio Sé, ossia quanto si sente profondamente coeso e solido, oppure fragile e frammentato, se prova stima di se stesso in modo positivo e costante, oppure tende ad autosvalutarsi, a sentirsi incapace, indegno di amore, e così via. Kohut definiva tali sogni come “self-state dreams”, o sogni sullo stato del Sé.

Prendendo le mosse dalla psicologia del Sé e integrando i contributi più salienti della letteratura neurofisiologica sul sonno, nonché gli apporti della psicologia cognitiva, J. Fossaghe (1983) propone che l’attività onirica sia un processo con cui la mente elabora l’esperienza promuovendo lo sviluppo, la regolazione e la reintegrazione del Sé. Si tratta di tre funzioni psicologiche distinte, che tuttavia possono a volte sovrapporsi in un medesimo sogno.

LA FUNZIONE EVOLUTIVA

Vi è mai capitato di sognare voi stessi nell’atto di fare qualcosa che mai più avreste pensato di poter fare nella vita reale? Non parlo di attività umanamente impossibili come il volare, piuttosto di modi di essere e di relazionarsi agli altri, che sentite come molto distanti da come normalmente siete abituati a percepirvi ma che, in fondo, “un po’ vi piacciono”.

In un noto esempio riportato da Fossaghe, una sua paziente si presentava nella vita reale (della veglia) come una persona dai modi di fare dimessi, repressa e un po’ trascurata nell’aspetto. Un giorno riferì di avere sognato di guidare una Porsche rossa e di essersi sentita molto bene in quel sogno. L’analista fece una espressione sbalordita, al che la paziente gli domandò: «cosa avrei dovuto guidare secondo lei?»; risposta: «una Edsel». Seppure dispiaciuta, la paziente comprese il senso di tale comunicazione. Spiega Fossaghe (1998, pag. 9): “Nella discussione che seguì, chiarimmo che la Edsel era il luogo fuori moda e represso in cui lei si trovava; la Porsche rossa era il lato vitale e sportivo di se stessa che stava emergendo. Io avevo reagito al contrasto fra l’aspetto represso della sua esperienza, che precedentemente era stato in primo piano nella vita della veglia, e l’emergere di un suo lato vitale e sportivo nel suo sognare. La Porsche divenne un simbolo potente della necessaria trasformazione appena iniziata che servì come guida complessiva del trattamento”.

I sogni hanno una funzione evolutiva quando ci permettono di intravedere per la prima volta una possibilità di essere e di vivere nuova, per noi più efficace e gratificante rispetto al passato. È un processo creativo che ci permette di riorganizzare l’esperienza, risolvere conflitti, acquisire nuovi punti di vista e modi di comportarsi: in altre parole, questi sogni ci segnalano che la persona sta cercando un passaggio evolutivo, qualcosa che promuova lo sviluppo psicologico.

Una tardo-adolescente si trovava alle prese col lutto della madre, a cui era molto legata. Il tema principale per lei era l’impossibilità di accettare la perdita, che inizialmente si presentava con un senso di “irrealtà”, distacco e mancanza di senso nella sua esperienza quotidiana. Dopo alcuni mesi di psicoterapia, la ragazza riferì di un sogno nel quale sentiva la presenza della madre, ma non riusciva a vederla. Tempo dopo, un altro sogno presentava la madre “di spalle”, in fondo ad una stanza. Poi fu possibile intravvederne il volto, girato di tre quarti. Infine, nell’ultimo sogno, la ragazza stava sciando e improvvisamente vide qualcuno accasciato prono nella neve, con del sangue tutto intorno; avvicinatasi per capire la situazione, girò il corpo e, con grande orrore, ma anche senso di “realtà”, si accorse che la persona riversa nella neve era sua mamma. Quel sogno fu per lei un’esperienza dolorosa, che le lasciò un senso di turbamento. Ciononostante, parlandone, convenimmo che si trattava comunque di un “passaggio in avanti” che le avrebbe permesso di proseguire il cammino dell’elaborazione affettiva col quale riconquistare il senso di vivere più pienamente nel suo presente. La possibilità di “vedere il volto” rappresentava metaforicamente l’acquisizione di una capacità interna di tollerare gli affetti della perdita, “guardandoli in faccia”.

Crescere a volte implica poter sostenere un certo grado di sofferenza. Nei sogni può capitare di sperimentare situazioni spiacevoli che, però, se contestualizzate al momento di vita ed alla personalità del sognatore, possono rivelarsi indicative di un processo evolutivo, come nell’esempio soprariportato. Questo esempio illustra anche il fatto che, a volte, temi di vita centrali si ripropongono in una serie di sogni successivi: per capire se la ripetizione sottintenda una trasformazione psicologica di qualsiasi natura, è interessante osservare in che modo la rappresentazione del tema cambia da un sogno all’altro.

LA FUNZIONE DI MANTENIMENTO O REGOLAZIONE DEL SÉ

Dentro questa funzione rientrano i sogni self-state di Kohut. Fossaghe amplia la questione, suggerendo che in questo genere di sogni le persone si stanno cimentando col tentativo di regolare processi e motivazioni fondamentali, tra i quali rientrano, oltre all’autostima, anche il bisogno di affidarsi a qualcuno più grande e saggio che ci possa proteggere dai pericoli, farci sentire al sicuro e sostenerci nella nostra crescita, l’esperienza sessuale, il bisogno di accrescere il nostro senso di competenza e conoscere il mondo, il bisogno di proteggerci dalle minacce, di sentirci parte di un gruppo di pari, etc.

Tutti noi in ogni momento della vita, da quando siamo neonati (forse, anche feti nel grembo materno) fino alla fine dei nostri giorni, ci troviamo dinnanzi alla necessità di regolare processi psico-biologici fondamentali. I primi obiettivi del neonato sono infatti la regolazione del senso di appetito, la messa in moto e regolazione delle funzioni respiratorie e digestive, la regolarizzazione dei ritmi sonno/veglia, la regolazione della temperatura corporea, e così via. Tutte queste funzioni/processi vanno di pari passo con la regolazione del senso di protezione e di essere amato dalle figure che si prendono cura del piccolo. Ed è proprio nella matrice di relazioni umane significative entro cui il bambino si sviluppa, che le funzioni psico/biologiche vengono regolate, inizialmente tramite l’azione degli altri (etero-regolazione), come quando la mamma intuisce il senso del pianto del suo bambino e provvede a calmarlo con le coccole, oppure a dargli da mangiare, a seconda delle necessità. Col tempo, quando si ripetono esperienze in cui l’espressione del proprio bisogno riceve risposte sintonizzate da parte degli altri, il bambino sviluppa sia aspettative positive sul fatto che, “prima o poi”, il suo disagio troverà una soluzione, sia la capacità di regolare da solo alcune delle funzioni un tempo regolate unicamente dall’intervento esterno. Ecco così che lo sviluppo umano procede tramite la costruzione di un repertorio sempre più sofisticato di strategie di autoregolazione e di regolazione interattiva.

Crescendo, poi, aumentano i sistemi comportamentali-motivazionali che devono essere costantemente regolati, aumenta il livello della loro complessità ed ognuno contribuisce a costruire il “Sé”, a farci sentire di avere un centro di iniziativa autonomo, coeso e fonte di autostima.

Nel corso dell’esistenza può capitare a chiunque di andare incontro ad una momentanea dis-regolazione in uno o più dei nostri sistemi motivazionali. Per esempio, anche nelle persone globalmente sicure di se stesse, può succedere che un cambiamento lavorativo imprevisto le faccia sentire temporaneamente inadeguate e timorose di non saper gestire i problemi. Persone che hanno sviluppato aspettative relazionali positive possono attraversare dei periodi in cui si sentono vulnerabili e incomprese, in cui sembra che i genitori o il partner non riescano a dare loro il conforto di cui hanno bisogno. Questi sono esempi nei quali un sistema motivazionale (assertivo-esplorativo il primo, di attaccamento il secondo) subisce una perturbazione, perde il suo abituale equilibrio e richiede un cambiamento volto a regolarlo.

A seconda delle storie di vita, alle persone può capitare di avere una difficoltà cronica nel regolare alcuni specifici sistemi motivazionali. Per esempio, alcuni sono vulnerabili al rischio di sentirsi incapaci negli ambiti di performance come la scuola e il lavoro, per cui anche minime sfide vengono vissute con grande angoscia e timore di non farcela a rispondere alle aspettative. In questi casi, il problema dell’autostima e della fiducia nelle proprie capacità (autoefficacia) si ripropone ciclicamente lungo l’arco di vita.

In tutti i casi, il momento in cui uno o più dei nostri sistemi motivazionali fondamentali si trova in stato di disequilibrio o sta per incorrere in una dis-regolazione, può manifestarsi nell’attività onirica, sotto forma di immagini che esprimono il senso di essere in pericolo, oppure di sentirci ostacolati nel raggiungimento di qualche desiderio/bisogno importante, oppure ancora, nel sogno compiamo degli atti “riparativi” rispetto a esperienze che ci hanno creato disagio durante la giornata, come capita quando, dopo aver subito una offesa senza reagire, nel sonno andiamo a sognare di “raddrizzare il tiro” con la persona che ci ha offesi. Si tratta in questo caso di un “regolare i conti” immaginario, che serve a regolare le emozioni (per es., la frustrazione, la rabbia repressa) ripristinando un senso di equilibrio interno.

 

LA FUNZIONE DI REINTEGRAZIONE

Con “funzione di reintegrazione” si intende il tentativo di riparare il Sé distrutto dalla mancanza di sensibilità di qualcun altro. Sogni di questo tipo accadono negli stati più gravi di disorganizzazione psicologica, ossia quando l’intero equilibrio psichico si trova a rischio di frammentazione. Includono immagini che esprimono un grosso rischio per l’incolumità del soggetto, oppure vedono l’alternanza caotica di stati emotivi e scenari diversi, il cui collegamento fra gli uni e gli altri è mancante o bizzarro, oppure ancora, sono sogni apparentemente poco vistosi, nei quali però si ripropone un modo di essere che mantiene il soggetto in uno stato di stallo o patologia.

A volte i sogni di reintegrazione permettono di recuperare un senso più coeso e positivo del Sé. A volte, però, denotano il persistere di impasse evolutive e conflitti vissuti come insanabili, andando a fortificare un assetto mentale più familiare ma più problematico. Immaginiamo un uomo che abbia appreso da bambino che per garantirsi la vicinanza e l’amore dei suoi genitori, deve mantenere un “profilo basso”, evitando di esibire le sue capacità e competenze. Quando ciò avveniva (ad esempio, quando il bambino riportava orgoglioso un commento positivo dell’insegnante di musica), il padre, narcisista, andava su tutte le furie perché si sentiva sfidato, ridicolizzava i resoconti del figlio e sottolineava con battute sarcastiche il proprio scetticismo sui successi del bambino. La madre, pur comprendendo il disagio del figlio in quei momenti, era totalmente incapace di tenere testa al marito e tendeva a chiudersi in un ritiro silenzioso, facendo così sentire il bambino abbandonato emotivamente. Crescendo, questa persona mantiene l’associazione implicita fra esperienze di gratificazione ed esibizione della propria capacità, da un lato, e angoscia di perdere la benevolenza delle figure di riferimento affettivo dall’altro. Da adulto tende a svolgere lavori sotto-dimensionati rispetto alle sue possibilità di prestigio ed economiche. Quando gli capita di ricevere una promozione, si sente inizialmente sorpreso e contento. Nella notte seguente, fa un incubo in cui si riafferma la visione negativa di sé, un Sé inadeguato ma più familiare, meno ansiogeno, perché non mette a rischio il legame affettivo.

UN ESEMPIO EMBLEMATICO: IL CASO DI UNA “TRILOGIA ONIRICA”

Ci sono dei momenti, nel corso della vita o lungo il processo terapeutico, che appaiono particolarmente densi di significato e potenzialità creativa. In questi periodi la vita onirica può esprimersi con intensità, catalizzando i cambiamenti avviati nel periodo precedente e aprendo la strada al nuovo che attende di essere conosciuto. L’illustrazione clinica che segue riguarda un lavoro sul sogno fatto con un giovane uomo, J., nella parte finale del suo percorso terapeutico. L’esempio è molto interessante anche per la complessità della sceneggiatura del sogno, che si presenta suddiviso in tre sogni distinti, come una “trilogia” dove i diversi episodi rappresentano passaggi concatenati di una trama sovraordinata.

Il primo sogno sembrava più il ricordo di un episodio di vita realmente vissuta, che una creazione onirica. Il sognatore vedeva i suoi genitori litigare per qualche aspetto della sua educazione, mentre era bambino. Sentiva che questa prima parte del sogno aveva contorni sfuocati, vaghi. Parlandone insieme, si ricordò di un periodo in cui sua mamma voleva tenerlo lontano dal padre, che tuttavia per lui è sempre stato una presenza amorevole.

Il secondo sogno lo vedeva nella sua vita attuale, impegnato a fare una torta con la sua ragazza. Lui stava compiendo un grande sforzo per tenere “ben distinte” due parti della crostata, una metà con la marmellata ed una metà con un altro ingrediente. Ricordava la fatica di questo tentativo, fallimentare, di allineare le strisce di pasta frolla in modo perfetto, e il nervoso crescente nel notare la mancanza di collaborazione da parte della sua ragazza, che pareva non notare l’importanza che tale obiettivo aveva per lui. Al contempo, poteva vedersi dall’alto e, sapendo che l’obiettivo era impossibile da raggiungere, giudicava come uno “scemo” quel ragazzo così ostinato a tenere distinte le metà della torta.

Nel terzo sogno si trovava nel seminterrato del condominio dove stavano le cantine. Girando un angolo, si bloccò notando la presenza di una figura minacciosa, scura. Guardando più attentamente vide che c’era anche una culla poggiata per terra, ma non sapeva se contenesse una bambola oppure un bambino in carne ed ossa. Indeciso se avvicinarsi o stare alla larga, decise infine di andare a vedere, provando in quel momento una sensazione sollievo.

Il senso di continuità fra i tre sogni era inizialmente dettato dalla loro giustapposizione temporale nel corso di una singola notte e da una sensazione generica di unità da parte del sognatore. Nel dialogo clinico che ne seguì, contestualizzammo i tre sogni nell’ambito del suo cammino esistenziale, dove un problema di salute congenito si inseriva nelle dinamiche familiari e questi elementi insieme avevano portato il ragazzo a trovarsi davanti a un senso di stallo nel suo ciclo di vita (non più adolescente, ma incapace di accedere ai ruoli ed alle responsabilità del giovane adulto, con conseguente senso frustrante di stagnazione). Con la psicoterapia fu possibile riattivare il senso di un movimento in avanti, acquisendo la capacità di tollerare i sentimenti di ansia e frustrazione, piuttosto che evitarli, inserire le difficoltà attuali nella complessità della storia di vita, riabilitare le aree di resilienza ed elaborare esperienze traumatiche che avevano compromesso l’autostima e alterato gli schemi di regolazione emotiva.

Il primo sogno rimandava al passato, alle sue radici familiari. Aveva una qualità di vaghezza proprio perché era la prima volta che il ragazzo si permetteva di parlare con qualcun altro di quella parte della sua infanzia. Era un’esperienza, per così dire, ancora “poco formulata”. Come la figura dell’uroboro, il tema del paterno tornerà nella parte finale della trilogia, essendo l’origine e la meta futura del suo ciclo di vita.

Il secondo sogno coglieva le sfide evolutive del suo momento di vita presente. In primis, la torta rimandava all’importanza di accettare che i confini tra le esperienze sono spesso sfumati, che lui poteva essere sia una persona competente e orgogliosa, sia una persona a contatto con la fragilità.
In secondo luogo, il nervoso riguardante la mancanza di collaborazione della sua ragazza apriva la strada ad un sentimento di insoddisfazione che, poco più tardi, confluì in una crisi nel rapporto. Quella specifica relazione di coppia aveva avuto un ruolo importante nel consolidamento e nella successiva messa in discussione dell’autostima di J. Mettere a fuoco questo aspetto fu di grande utilità nel cogliere la funzione psicologica che il legame sentimentale aveva avuto per la sua crescita, bonificando e rendendo più tollerabile il dolore della separazione che ne seguì.
Un terzo aspetto degno di nota di questo sogno centrale è lo sdoppiamento della prospettiva: da un lato l’ “io che agisce” (nel fare la torta, ad esempio), dall’altro l’ “io che osserva”, un osservatore acuto, ma anche un po’ giudicante. Apprezzammo l’acquisizione di una capacità di visione bifocale, una risorsa importantissima per ciascuno di noi, che ci permette di vedere da prospettive differenti i nostri problemi, di mettere una sana distanza dal coinvolgimento nelle emozioni negative, per recuperare una visione d’insieme che, quando siamo molto arrabbiati o affranti, può andare perduta. Al contempo, questo sogno fu l’occasione per rivedere come nella sua interiorità persistevano stati del Sé svalutanti, che ridicolizzavano i tentativi di problem solving messi in atto. Discutemmo di quanto potesse risultare utile ammorbidire la visione dell’“io osservante”, mantenendo la sua acutezza nel cogliere certi elementi (ad esempio, l’inutilità di profondere tanti sforzi per uno scopo impossibile), ma sviluppando uno sguardo più benevolo e compassionevole verso le altri parti del Sé.

Il terzo sogno era il più lontano dalla sua realtà vissuta: rappresentava, infatti, la proiezione nel suo futuro. La presenza inquietante dell’uomo nero poteva rimandare alle naturali paure che normalmente accompagnano ogni fase di crescita. Si trattava di un tema di regolazione che era stato centrale nelle fasi precedenti della sua vita, dove il bisogno di sfuggire a sentimenti inquietanti l’aveva mantenuto nella condizione di stallo. Adesso aveva acquisito una sufficiente capacità di tollerare l’ansia e poteva quindi cimentarsi nell’esplorazione di se stesso. In questo senso, nel sogno si vede il consolidamento di una risorsa psicologica, uno strumento acquisito nella terapia, ma ora interiorizzato e messo nella valigia con cui proseguire il suo viaggio, anche in autonomia (si ricordi che il sogno si presentò nella parte finale della psicoterapia, dopo che fu introdotta la possibilità di una “fine della analisi”).
La dimensione di temporalità futura del terzo sogno era condensata nell’immagine della culla. Il ragazzo spiegò di essere rimasto sorpreso nel sognare qualcosa che aveva a che fare con l’esperienza della genitorialità, in quanto non aveva mai pensato a quella possibilità di vita per se stesso. Riflettendoci, notava che si trattava di un obiettivo per lui importante: prima o poi, avrebbe voluto essere un padre. Ma ciò che, dal mio punto di vista, era significativo, non riguardava tanto il volerlo o non volerlo, quanto il fatto stesso di porsi la questione. La culla, con la sua qualità di elemento a metà fra la finzione (il giocattolo) e la realtà di un bimbo in carne ed ossa, introduceva nello scenario mentale un elemento nuovo, un tema centrale nella fase dell’età adulta, dove prima o poi ci si confronta con la domanda “voglio un figlio, oppure no?”. Per il ragazzo non era ancora il momento di declinare questo tema in modo concreto nella sua vita, doveva ancora consolidare le tappe dalla fase del giovane adulto. Si trattava piuttosto di un obiettivo del medio-lungo termine, una meta futura, la cui presenza, a livello di pensiero, di potenzialità o di fantasia, denotava la tensione verso un senso di crescita, verso il proprio avvenire.
Infine, il discorso sulla genitorialità ci portò a rivedere temi cruciali del suo passato. Da un lato, per rispondere alla domanda “che tipo di padre vorrei essere?”, riemerse il rapporto col proprio padre, l’opportunità di recuperare elementi positivi di questa esperienza che avrebbero potuto dare fiducia e forma all’esperienza della sua genitorialità futura. Dall’altro, venne a galla la domanda: “potrò trasmettere ai miei figli la mia malattia?”. Convenimmo che si trattasse di una questione centrale, che avrebbe meritato un adeguato lavoro di elaborazione nel momento in cui avesse deciso di rendere più concreto il progetto di avere dei figli. Apprezzammo il fatto che, almeno in quell’aspetto, l’elaborazione della sua storia di malattia, riguardante le sue origini e tutta la sua giovinezza, si intrecciava con l’elaborazione di una tappa successiva del ciclo di vita.

Inutile dire che questo super-sogno contiene tantissimi elementi della cosiddetta “funzione evolutiva”: l’anticipazione di nuovi temi di vita, la focalizzazione sui processi di problem solving e l’apertura a nuovi scenari con cui approcciarli. La temporalità stessa scandita dal passato-presente-futuro dei tre sogni indica un senso di movimento evolutivo: c’è crescita se possiamo vivere pienamente il nostro presente, andando contemporaneamente incontro al nostro futuro e sapendo da dove veniamo. C’è stallo quando non riusciamo ad accedere alle tappe di vita successive. E c’è blocco traumatico quando il passato, doloroso, continua ad invadere il presente, confondendo i confini tra le fasi di vita e minacciando la possibilità di cambiare le cose.

Il sogno centrale è, poi, un “sogno sullo stato del sé” a tutti gli effetti: ci dice quali sono le criticità con cui fare i conti, le fonti di minaccia alla coesione del Sé e all’autostima, mette in chiaro a che punto si trova il sognatore rispetto alla maturazione interna. Naturalmente è anche un sogno di “regolazione”, sia per quanto concerne l’asse relazionale, sia per il tema dell’autostima. Altri aspetti di regolazione confluiscono, come già detto, anche nel terzo sogno, sotto forma di dubbio e successiva decisione rispetto al modo di affrontare il senso di minaccia (una maturazione nelle strategie di regolazione dell’avversività).

Ci tengo a sottolineare che la comprensione di questo sogno, così come di tutti i sogni portati dai pazienti con cui lavoro, si sviluppa solo ed esclusivamente grazie al dialogo. È un processo di costruzione di una verità soggettiva (mai assoluta!), dove ognuna delle due parti, terapeuta e paziente, modellano insieme un vaso di ceramica, l’impronta lasciata dall’uno fa da stimolo per la mossa dell’altro, ad ogni tocco ci si confronta su quanto si sente aderente la forma impressa, rispetto al sentire interno. Non avrei mai potuto dare questo genere di lettura al sogno di J. senza il fertile scambio che abbiamo sviluppato assieme.

Riferimenti bibliografici

Bellieni, C.V. (2004). L’alba dell’“io”. Dolore, desideri, sogno, memoria del feto. Firenze: Società Editrice Fiorentina.

Bucci, W. (1997). Psicoanalisi e scienza cognitiva. Una teoria del codice multiplo. Giovanni Fioriti Editore

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Fosshage J. (1983). The psychological function of dreams. A revised psychoanalytic perspective, Psychoanalysis and Contemporary Thought, 6, pp. 641-69

Grey, P. (2004). Psicologia (pp. 178-189). Bologna: Zanichelli

Ohlsson, S. (2011). Deep learning: How the mind overrides experience. New York: Cambridge University Press

Storolow, R.D., Brandchaft, B., Atwood, G.E, Fossaghe, J., & Lachmann, F. (2004). Psicopatologia intersoggettiva (II ed). Urbino: Quattro Venti

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